2971463Teoricamente non ho nessun titolo per scrivere qualsiasi cosa su un “romanzo rosa” (o romance, all’inglese, ché mi piace di più e fa meno Liala o Delly). Ma il fatto che un libro, pur fuori dalle mie coordinate abituali di lettura, smuova riflessioni e desiderio di relativa condivisione, ne fa sicuramente un oggetto culturale interessante. Che poi riesca a dirne/scriverne cose intelligenti è altra questione, e questo eventualmente me lo potranno far sapere lettori – ma soprattutto lettrici – del blog. Intanto le uniche cose che più o meno appartengono al genere e che ho davvero adorato sono i due romanzi di Daphne Du Maurier portati sul grande schermo da Alfred Hitchcock: Taverna alla Giamaica e soprattutto Rebecca, la prima moglie (ne ho anche scritto qui relativamente all’ultimo remake targato Netflix). Prendo quest’ultimo come esemplare delle meccaniche del romance: c’è un triangolo che innesca il dramma tra una donna, il marito di lei e un’altra. Ovviamente la genialità della Du Maurier sta nel ribaltare la prospettiva aristocratico/borghese e nel rendere “l’altra” la protagonista e l’eroina della storia, mentre “lei”, la moglie, Rebecca, all’epoca della narrazione è già morta, ma non per questo meno in grado di influenzare gli eventi. Niente in realtà di così drammatico nel romanzo di Mavie Da Ponte Fine di un matrimonio (MarsilioREIMAGINING-23), anzi, per certi versi, siamo di fronte alla narrazione della quotidiana banalità all’interno di una “normale” fine di una relazione. E allora qual è il motivo di interesse? Fatta salva una qualità eccelsa di scrittura ed una invidiabile capacità di prendere i luoghi comuni e di rivoltarli come calzini, apparentemente nulla, e non starò a fare una critica dell’estetica letteraria ché sarebbe compito assolutamente al di fuori della mia portata. Ma probabilmente se avessi avuto di fronte “solo” un romanzo rosa scritto bene non mi sarei mai avventurato a leggerlo. E allora tocca fare un po’ di autobiografia recente e spiegare che ho incrociato l’autrice a Reimagining 2023, un evento dedicato principalmente ad insegnanti delle scuole piacentine dello scorso 11 settembre in cui eravamo ospiti sia io (per il gaming in biblioteca) sia Mavie Da Ponte a presentare, più che il suo romanzo d’esordio, la sua evoluzione di scrittrice passando dai racconti sul blog ad una casa editrice, al suo nascondere le origini “qualunque” dietro ad uno pseudonimo e ad un personaggio. E che personaggio: arrivata sul palco della Sala dei Teatini di Piacenza con cappellino e vestito che richiamava gli anni ‘30 o forse ‘50 del Novecento (mi si perdoni l’insipienza in storia della moda), con caschetto di capelli e frangetta ché le avresti (le avrei) dato massimo 25 anni (solo per scoprire che invece di anni ne aveva 36 ed era una “millennial di mezza età” come affermato da lei in sarcastica ironia sulla definizione negativa data alla generazione da uno dei precedenti relatori) e una gestualità compassatissima, rigida ed ipercontrollata nel raccontare come la lei che vedevamo sul palco non era la lei persona, ma una costruzione finzionale.

Per questo ho recuperato il libro e l’ho letto d’un fiato. Chiedendomi ogni tanto durante la lettura perché lo leggessi, ma non di meno senza mai avere il dubbio di interromperlo o abbandonarlo. Ma, come esplicitato sopra, non posso scriverne da un punto di vista estetico o letterario. Mi limiterò allora a qualche appunto psicologico, riesumando i ferri del mestiere accantonati a favore di quelli del bibliotecario. Ma per fare questo devo segnalare un vistoso

SPOILER ALERT

in considerazione del fatto che per analizzare i personaggi avrò bisogno di rappresentare tutta la loro parabola. Il personaggio principale è Alberta Maggiore (detta Berta) a cui, inaspettatamente all’inizio del romanzo, il marito Libero dà la notizia che il loro matrimonio è finito e che la lascia seduta stante. Attorno a Berta ruotano sostanzialmente tre personaggi, tre maschi: il marito, l’amante giovane – Lorenzo – con cui inizialmente instaura una relazione dopo l’abbandono del marito, ed infine Pietro, un amante molto più vecchio di lei con cui riesce a ritrovare la forza anche professionale per ripartire nella sua attività di gallerista d’arte. Altri personaggi sono la madre in conflitto aspro e continuo, l’amica, la collaboratrice della galleria d’arte, l’avvocato divorzista del marito (già amico di Berta) e “Sara”, l’estetista cinese da cui Berta va a farsi (fare? colorare? sistemare? oddio temo di essermi infilato in una questione da cui decisamente non so come uscire…) le unghie e che si rivela l’artista che contribuirà a risollevare le sorti della galleria. Il marito è una figura neutra (nel peggiore significato possibile che si possa pensare per questo aggettivo) interessato unicamente alla propria professione (ginecologo) ed alla propria posizione sociale. Ed è proprio la rottura dell’immagine sociale della famiglia borghese e realizzata a mettere in crisi Berta, che non si sarebbe preoccupata invece di un tradimento che fosse rimasto nei confini della scappatella extraconiugale (tradimento che lei stessa, per altro, confessa di avere a suo tempo consumato). Non un caso che a Berta non interessi realmente chi sia stata a spodestarla nelle attenzioni del marito e che il sesso con i partner successivi sia descritto con un pathos da parte sua che si avvicina allo zero: più che un fine, più che un piacere, un mezzo per tenere legato (e far tornare) il partner. E qui passiamo ai partner. Occorre precisare che Berta non ha figli perché, d’accordo col marito, non ne ha voluti. Però ora, alla soglia dei 48 anni, con la menopausa che si sta facendo strada con mestruazioni intermittenti e la fine del matrimonio senza apparentemente prospettive sentimentali di fronte, avanza il dubbio di aver compiuto la scelta sbagliata. E, complice anche l’amica Carla, si infila in una relazione con Lorenzo, professore molto più giovane di lei. Per lei Lorenzo è un po’ il figlio non avuto, ma molto di più per Lorenzo lei è la madre anaffettiva da compiacere in ogni modo, anche edipicamente a letto. Non è un caso che più che le performance erotiche, sorprendano Berta i lavori domestici che Lorenzo spontaneamente si accolla, e il suo progressivo allontanamento la ferisce come tradimento di un figlio devoto piuttosto che di un amante fedele. Per certi versi è quindi naturale il passaggio da un partner “troppo” giovane a un partner “troppo” vecchio: Pietro, che va a prendere il posto del padre prematuramente scomparso che, con la sua pazienza e ragionevolezza, faceva argine tra Berta e le intemperanze della madre. Scomparsa la madre, Pietro si ritrova appoggio a Berta per le traversie legate alla logistica del divorzio (il cambio di casa, le ipocrite disponibilità del marito e dell’avvocato) e per l’azzardato rilancio della galleria d’arte grazie alle opere – se accettabile come definizione contraddittoria, descritte come originalmente kitsch – di una studentessa delle Belle Arti di Pechino ridottasi per vivere a fare l’estetista in un’anonima (perché l’autrice non ce ne svela il nome) città italiana. E la professione di Pietro – restauratore di mobili antichi – è una perfetta metafora della sua relazione con Berta, che si sente ormai vecchia e superata dal mondo e dalla vita (nonostante gli apprezzamenti – “bella signora” – che riceve dagli avventori del negozio di kebab dove, disperata dopo l’abbandono, si rifugia, incapace anche solo di pensare a cucinare).

Quello che più mi ha impressionato è che Berta non è mai protagonista, nel senso che non è mai lei a decidere e progettare il proprio destino. È chiaro che progettare il proprio destino è un’attività ad alto rischio di fallimento con possibili esiti tragici. Ma sembrerebbe preferibile al comportamento di Berta che è quello di trascinarsi nell’autocommiserazione lasciando andare in malora anche quello che invece potrebbe ancora darle ragione di vita e soddisfazione come la galleria, le amicizie, le relazioni superstiti. Non un caso quindi che a “salvarla” sia un surrogato del padre, una relazione in cui, ancora una volta, non le interessa tanto la dimensione sessuale, quanto quella di supporto e di àncora al vivere civile. Mavie Da Ponte non crea personaggi maschili concreti, al più abbozzi, maschere da teatro greco, ma ancor più sorprendente che è ancora più “assente” il suo personaggio femminile al centro della narrazione. Un’assenza che contrasta in maniera netta con la narrazione femminile che sempre più sta avanzando: soggetto politico e protagonista. Da maschio, forse non migliore di Libero (anche se più vicino anagraficamente a Pietro), preferisco queste ultime che rischiano e che ci mettono la faccia, lasciando che sia il maschio di turno a chiedersi dove ha sbagliato.

Mavie Da Ponte (dal suo profilo Twitter/X)

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