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Sono corso al cinema a vedere Civil War di Alex Garland perché mi aspettavo un film che ampliasse da un punto narrativo quanto spiegato nel recente libro di Stefano Tevini White Power (che ho presentato qui): l’immaginario suprematista che immagina – appunto – una guerra civile per liberare l’America da ebrei, neri e islamici, e se non tutta quanto meno per creare una confederazione riservata alla “pura” razza bianca. Da questo punto di vista – diciamo da un punto di vista politico e sociologico – il film è una delusione. Questi aspetti non sono mai approfonditi se non a livello di mera giustificazione strumentale alla vicenda: il presidente al terzo mandato (da quando e perché è possibile?) ha bombardato i civili (anche qui: perché?) e gli stati della California e del Texas (che, pur non essendo certo il sottoscritto un esperto della geopolitica statunitense, mi pare un’alleanza abbastanza improbabile) si ribellano e fiancheggiati da altri danno l’assalto alle forze governative che progressivamente abbandonano il presidente. Anche dalla parte dei ribelli però non sono rose e fiori dato che assistiamo a massacri ingiustificati e alla creazione di fosse comuni. Sostanzialmente si tratta di una guerra, sporca, brutta e cattiva come sono tutte le guerre e lo scenario sono gli Stati Uniti, ma avrebbe potuto tranquillamente trattarsi dell’Europa o altro. Semmai l’unico elemento sociologico davvero interessante e inquietante è la compresenza di scenari violenti ed altri apparentemente bucolici: si esce da una zona devastata dal conflitto per entrare in una cittadina linda e quieta e prati suburbani perfettamente curati confinano con fosse comuni. Deve essere evidente che a Garland non interessano le motivazioni politiche del conflitto ma piuttosto osservare come il conflitto stesso viene raccontato.

Il film infatti narra la storia di due giornalisti (il giovane Joel – interpretato da Wagner Moura – e l’anziano Sammy – interpretato da Stephen McKinley Henderson -) e due fotografe (la superstar della fotografia di guerra Lee Smith – interpretata di Kirsten Dunst – e la ventenne Jessie – interpretata da Cailee Spaeny – che vede la prima come modello da imitare) che intendono, da New York, attraversare la zona di guerra che si sta stringendo intorno alla capitale, per intervistare il presidente asserragliato nel Campidoglio a lanciare proclami sempre più demenziali quanto inutili. Ed è proprio nel confronto tra le due fotografe che l’intreccio prende vita. Apparentemente la matura a dare consigli e istruzioni mentre la giovanissima resta sconvolta dalle atrocità di cui è testimone. Ma l’indizio che le cose non siano così semplici lo abbiamo osservando la differente attrezzatura. Lee ha un set di tutto rispetto di macchine fotografiche digitali mentre Jessie utilizza delle macchine analogiche “ereditate” dal padre e si porta dietro un kit per sviluppare “al volo” la pellicola. La pellicola che usa inoltre è rigorosamente in bianco e nero e le fotografie che Garland ci mostra sono proprio quelle in bianco e nero di Jessie, non quelle – ipoteticamente – a colori di Lee (se non quando ci viene presentata una slideshow delle foto che l’hanno resa famosa).

Tempo fa già postai una riflessione sul bianco e nero nella fotografia, nel cinema nel fumetto e da lì parto per osservare come Garland proponga le foto in bianco e nero di Jessie in qualche modo come la rappresentazione più fedele della realtà. Più fedele delle immagini a colori. Soprattutto più fedeli delle telecamere a disposizione della troupe “embedded” alle truppe ribelli che a Washington si lascia sviare dal trucco di un tentativo di fuga presidenziale. Non ci casca Lee, forte della sua esperienza negli scenari bellici, ma sarà Jessie a scattare le foto (facendo a Lee esattamente quello che temeva che quella avrebbe fatto a lei). Per “leggere” le intenzioni di Garland possiamo seguire anche un’altra traccia: la concitazione della battaglia di solito ha come colonna sonora il fracasso di spari ed esplosioni, ma spesso questo viene cancellato dalla musica, che sia rap o country, così come le inquadrature della cinepresa variano di fuoco e/o di luminosità per trovare l’immagine migliore da presentare.

E può forse sembrare curioso che la fotografia sopravviva nell’epoca dell’immagine digitale che non solo rappresenta, ma può addirittura virtualmente ricreare. Eppure in qualche modo la fotografia rimane ammantata di realtà in misura maggiore, e tanto più quando, sembra dirci Garland, è meno invasa dall’iper-qualità elettronica, quanto più la grana grossa dell’analogico sembra confermare la congruenza della rappresentazione alla realtà. Per questo Civil War è più un film sulla visione (anche cinica di persone che per scattare foto non si immischiano mai nelle vicende e, quando succede, si chiedono sconvolti il perché lo scudo apparentemente magico della targa PRESS non li abbia protetti) che sulla guerra.

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