Opera Snapshot_2023-09-02_140629_mitpress.mit.eduHo da qualche giorno concluso la lettura di Cheating. Gaining Advantage in Videogames di Mia Consalvo, un libro iniziato oltre dieci anni fa. Non è che ho impiegato dieci anni a leggerlo ma piuttosto, dopo averlo iniziato, l’ho messo da parte perché la sua lettura non mi sembrava particolarmente significativa. Il mese scorso però ho recuperato la lettura del numero monografico della rivista Hamelin dedicato ai videogiochi (n. 49) e tra le altre cose (molte per lo più interessanti e condivise) ho letto:

Come osservato da Pizarro, Detweiler-Bedell e Bloom nel 2006: “Nessuno si sentirebbe in colpa per aver tirato un calcio a un sasso, anche per il solo piacere di farlo, ma fare la stessa cosa a un bambino è universalmente vietato. Qual è la differenza?”

Immagino che se avessi posto tale quesito “qual è la differenza morale tra il tirare un calcio ad un sasso e ad un bambino?” ad un qualsiasi professore di filosofia morale incrociato durante gli studi probabilmente non mi sarei mai laureato e forse neppure diplomato. La risposta è talmente banale che la potrebbe dare anche un bambino della scuola materna: il sasso ovviamente non “sente”, non ha sentimenti, emozioni, coscienza, quindi il mio dargli un calcio non ha altro significato che il meccanico spostarlo da un luogo all’altro. Non esiste in tale gesto alcun possibile risvolto morale. L’irritazione di vedere una tale inutile questione posta in un saggio accademico prima e riportata poi in una rivista stimata da colleghe e colleghi che lavorano in biblioteca, mi ha però riportato alla mente proprio la lettura interrotta di Cheating. L’interruzione di tale lettura è stata causata proprio dalla posizione, da parte dell’autrice, di tali a mio parere inutili problemi: equiparare l’uso di codici o di guide in un gioco “single player” al barare in un gioco multiplayer ha esattamente le stesse ricadute della differenza tra il tirare un calcio ad un sasso o ad un bambino. Se io “imbroglio” la macchina usando i codici per ottenere vite o munizioni infinite per completare un gioco altrimenti per me troppo difficile non mi trovo in un contesto “morale”. Non sto facendo del male (o del bene) ad un essere senziente che può reagire con dolore (o piacere) alle mie azioni. Cosa molto diversa se invece imbroglio in un gioco multiplayer, dato che in quel caso sto danneggiando a mio vantaggio altre persone non seguendo le stesse regole a cui tutti abbiamo convenuto entrando in gioco. Di più: l’utilizzo di “cheat” e “walkthrough” viene lodato da James Paul Gee come modo creativo per giungere collettivamente a soluzioni a problemi individuali (vedi: Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, Raffaello Cortina, 2013).

La prima pubblicazione del libro risale al 2007 e quindi la Consalvo non poteva ancora vedere come il fenomeno della pubblicazione in rete delle guide per la risoluzione dei videogiochi (i “walkthrough”, appunto) fosse destinata ad evolversi in un fenomeno comunicativo importante attraverso schiere di youtubers e di twitchers che hanno trasformato la passione videoludica in lavoro. Ad esempio uno dei miei youtubers preferiti è QuelTaleAle: qualche anno fa mi trovavo fastidiosamente inceppato in Darkqueltaleale Souls III e sono andato su YouTube a cercare guide su come superare i suoi famigerati boss incappando nei video con la “run” completa del gioco da parte dello YouTuber. Ben presto mi sono accorto che (per me) era assai più divertente fare da spettatore alle evoluzioni videoludiche di Ciro – l’avatar ludico di QuelTaleAle – condite da facezie e commenti salaci, piuttosto che sudare le fatiche videoludiche in prima persona. Per questo QuelTaleAle che ha realizzato i video walkthrough o io che li ho guardati possiamo essere considerati “immorali”? In questo caso tale giudizio di immoralità sarebbe da allargare a chiunque si fa aiutare in un compito in cui da solo non riesce, come ad esempio un qualsiasi studente che prenda lezioni private in una materia in cui è debole. Occorrerebbe approfondire il concetto di moralità, ma questo ci porterebbe troppo lontano dal libro, dal videogioco e dalla rispettiva analisi. Per il momento sia sufficiente qui sottolineare come l’azione morale non può essere definita in astratto, senza un collegamento reale o potenziale con la società. Dare un calcio ad un sasso non è immorale: in caso contrario ad essere immorale sarebbe ad esempio tutto il calcio e buona parte degli sport. Utilizzare guide o cheat code per terminare un videogioco non è immorale (e anzi, come sottolinea Gee, può servire a potenziare le mie capacità di “problem solving” e le mie abilità di ricerca in rete). Se “baro” per terminare un solitario, non posso considerare la mia azione riprovevole sul piano morale: lo diventa invece se mi vanto con altri del completamento come se lo avessi effettuato in autonomia. Ed ecco il nesso: immorale diventa l’azione che va a danno di altri o della comunità sia in modo reale sia in modo potenziale (ad esempio se brucio il testo sacro di una religione o se danneggio l’ambiente in cui tutti viviamo e da cui traiamo sostentamento).

È quindi sicuramente immorale usare codici o altri strumenti che mi consentono di avere un vantaggio quando gioco con o contro altre persone. E proprio l’ultima parte del libro della Consalvo è dedicata ad analizzare le pratiche del cheating (e le relative risposte da parte delle community di videogiocatori e da parte delle aziende produttrici) all’interno dei MMOG e MMORPG, cioè di quei giochi persistenti online che condividono l’ambientazione per un grande numero di giocatori. L’autrice si sofferma in particolare sul fenomeno dell’“harvesting” per conto terzi dietro compenso o effettuato tramite bot per aumentare il livello del proprio personaggio senza passare per lunghe e noiose fasi di esplorazione, estrazione risorse, scaramucce con nemici minori, ecc. Il libro è stato pubblicato nel 2007 e sarebbe ingiusto incolpare l’autrice di non essere stata in grado di prevedere fenomeni come Fortnite che, a fronte della gratuità dell’accesso (il modello “free-to-play”), offrono contenuti aggiuntivi a pagamento riuscendo così ad ottenere maggiori entrate rispetto a giochi che prevedevano una quota di abbonamento. Sarebbe ingiusto, anche se è da osservare come questo modello fosse già presente in un gioco non di tanto successivo al libro come FarmVille, uscito nel 2009. Comunque, visto nella prospettiva del suo libro, Fortnite e tutti i giochi che utilizzano lo stesso modello free-to-play a cui sono aggiunti acquisti in-game, sarebbero da considerare il male morale assoluto in ambito videoludico. Peccato però che le sue ultime considerazioni (nonostante le sue intenzioni) giustifichino proprio tale pratica. In che modo? Nella sua conclusione Consalvo critica il concetto di “cerchio magico” huizinghiano perché sostiene che la morale dei giocatori all’interno del gioco non deve essere separata dalla morale dei giocatori all’esterno del gioco. Per farla semplice: se gioco a Grand Theft Auto  e picchio o uccido passanti innocui o se gioco a Carmageddon e mi diverto ad investire persone con la mia auto, la mia moralità di persona è messa in dubbio dalle azioni immorali che compio all’interno del gioco. Quello che faccio nel gioco definisce la mia persona anche all’esterno del gioco. Tale posizione è negativa in modo esplosivo anche considerando la distanza temporale che ci separa, anzi forse proprio perché in tale ottica può essere considerata come suggerimento e supporto a pratiche che vedremo fra poco. Da sottolineare è che, anche ammettendo la completa impermeabilità tra gioco e vita reale, non sempre il giocatore accetterà di mettersi in gioco fino in fondo compiendo “in game” azioni che vadano diametralmente contro la sua natura e le sue convinzioni. Ad esempio non ho mai partecipato al massacro di civili nell’aeroporto russo in Modern Warfare e non ho mai ucciso nessuna sorellina in Bioshock 2. Ma in Mass Effect: Andromeda ho impersonato un personaggio di sesso femminile impegnato a fare sesso acrobatico con una asari adolescente. Senza che ciò mi ponesse dubbi sulla mia moralità o sulla mia virilità. Forse l’uccisione immotivata è talmente aliena dal mio essere che mi rifiuto sia inconsciamente, sia consapevolmente, di sperimentarla anche sapendo che si tratta di un’azione del tutto virtuale, di una simulazione senza alcun riflesso nella realtà della vita. Non così alieno, nonostante le pratiche di vita rigorosamente “straight”, come l’esplorare possibili forme alternative di sessualità. Quello a cui mira Consalvo nel suo sfumare i contorni del cerchio magico è una presa di consapevolezza del sé morale che a suo parere deve essere mantenuto anche all’interno del gioco. Il risultato però è ben diverso: il mischiare realtà e gioco ha prodotto fenomeni di ibridazione economico-ludica come FarmVille e come Fortnite dove più sei disposto a pagare e più puoi avanzare nel gioco e avere un ranking e popolarità maggiore per il personaggio che controlli. Forse peggio ancora ha prodotto la gamification diffusa come mezzo non solo da utilizzare in un contesto educativo (ma i fini giustificano i mezzi?) ma soprattutto per indurre fidelizzazione ai brand in ottica biecamente capitalistica e per spostare attività lavorative sempre più nell’ambito della gratuità ludica.

Tutto ciò fa del libro di Consalvo un terribile “cattivo maestro” le cui tesi sono da criticare a fondo e ribaltare attivamente.

Mia Consalvo
Mia Consalvo

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