locandinapg1

Probabilmente avete già visto/sentito/letto svariati commenti sulla serie Prime Video di Amazon dedicata alla serie videoludica Fallout. Cercherò quindi di limitare all’essenziale i commenti. Il primo dei quali (fatta salva qualche riserva su buchi, elementi non spiegati – ad esempio: come ha fatto Moldaver, che non è una ghoul e non è stata in una cella criogenica, a sopravvivere oltre 200 anni? -, sul fatto che i personaggi continuino casualmente a incrociarsi manco fosse una storia ambientata in un paesino di provincia) è quello sulla bontà del prodotto: a me che ho giocato Fallout fin dal primo videogioco della serie uscito nel 1997, la serie televisiva è piaciuta e mi ha trasportato proprio là dove mi aspettavo che mi portasse, tra gli orrori radioattivi della Zona contaminata.

Ho scritto di aver giocato col primo Fallout e dunque mi sia consentito un ricordo. Nel 1997 uscirono praticamente in contemporanea due videogiochi con una visuale isometrica: Fallout: A Post Nuclear Role Playing Game sviluppato e pubblicato da Interplay e Myth: The Fallen Lords sviluppato e pubblicato da Bungie. Il primo era un gioco di ruolo di ambientazione retrofuturistica mentre il secondo era un gioco tattico con ambientazione fantasy. Se vi prendete la pena di andare a vedere sulle riviste videoludiche dell’epoca le classifiche di fine anno relative al 1997 troverete Myth e non Fallout perché Myth sfoggiava una meravigliosa (per l’epoca) grafica 3D, mentre Fallout si basava ancora su un sistema (apparentemente antiquato) a turni in mappe costituite da celle esagonali (ogni spostamento da una cella all’altra era un’unità di movimento e l’utilizzo delle armi prevedeva a sua volta varie unità di movimento). Personalmente al contrario mi sono stancato presto di Myth, mentre Fallout l’ho giocato fino alla conclusione restandone deliziato (e ancora mi capita di inserire il finale in qualche formazione sulla potenzialità narrativa dei videogiochi).

Perché mi è piaciuta la serie Fallout? Ovviamente perché mi ha riportato in modo efficace (anche se gli scorpioni mutati non sono neanche lontanamente così grossi e pericolosi come quelli nel videogioco) nella Zona contaminata già esplorata in lungo e in largo nel ciclo videoludico (a cui la nuova “run” targata Bethesda ha aggiunto il 3D ma lasciato intelligentemente la possibilità di sfruttare il meccanismo a turni dei vecchi titoli). Lo ha fatto in maniera più efficace di altre “trasposizioni” (ma meglio sarebbe dire “rimediazioni” e vedremo il perché fra un attimo) da videoludico a cinematografico (penso a Resident Evil, a Doom, a Uncharted, a Tomb Raider, per quanto alcuni di questi titoli li abbia apprezzati) proprio grazie al suo formato di “serie” (e non di opera autoconclusiva) da un lato e alla caratteristica “open world” di Fallout. A differenza degli altri titoli citati (attenzione: non parlo di The Last Of Us perché, per motivi personali, non ho visto la serie) Fallout non ha un protagonista fisso (ogni episodio videoludico ha un protagonista diverso che, in stile gioco di ruolo, può essere personalizzato) e anche la narrazione prevede una missione principale che serve a dare un senso al vagare del protagonista nella Zona contaminata, ma il grosso del videogioco è composto da una miriade di missioni, grandi o piccole, per la maggior parte facoltative. In questo senso il vero protagonista di tutti i videogiochi del ciclo è l’ambientazione, che non è solo una landa radioattiva post-apocalisse nucleare, ma che slitta anche in un presente (o in un prossimo futuro) ucronico dove l’apocalisse ha congelato un’America immersa nel decor, nell’immaginario tecnologico e nelle fobie degli anni ‘50. Dunque un’ambientazione che genialmente mescola futuro e passato trasportando il giocatore in una sorta di western alla Sergio Leone del futuro. Quindi non importa che i luoghi e i personaggi della serie non rispecchino quelli di questo o di quell’altro episodio del ciclo videoludico. L’importante è la fedeltà – riuscita – al personaggio principale del ciclo: l’ambientazione. Fedeltà siffatta è difficile da mantenere quando si attua un’operazione di “rimediazione” da medium interattivo a medium non interattivo. “Rimediazione” è un termine coniato da Jay David Bolter e Richard Grusin nel libro Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi (Guerini, 2005) e sta a indicare esattamente l’operazione di passaggio di un contenuto da un medium all’altro. Se ci troviamo di fronte a due media narrativi (libro e film ad esempio) tale passaggio è meno complicato perché entrambi condividono il meccanismo basilare. Anche il passaggio da un medium non interattivo ad uno interattivo è, almeno teoricamente, semplice: basta rendere interattive alcune parti del testo: nei videogiochi raramente la cosa è riuscita, ma invece ha funzionato egregiamente con la versione libro-game dei racconti di H.P. Lovecraft. Con ogni evidenza invece il passaggio inverso da medium interattivo (“ergodico” per usare l’efficace definizione fatta da Espen Aarseth in Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature, Johns Hopkins University Press, 1997) ad uno non interattivo (narrativo) continua a rivelarsi estremamente complessa. Lo spettatore si trova mediamente di fronte ad una lunghissima cut-scene che immancabilmente si mette a confrontare con l’originale ludico sottolineandone le manchevolezze, anche perché mai nessuna esperienza ludica sarà esattamente uguale ad un’altra, mentre l’esperienza narrativa (nel nostro caso cinematografica) è uguale per tutti. La serie televisiva, e in particolare Fallout, riesce a deviare l’attenzione mettendo in gioco svariati percorsi narrativi dove l’attenzione dello spettatore si può focalizzare su uno piuttosto che sull’altro, restituendo, almeno in parte, l’unicità dell’esperienza ludica (il percorso che più ha intrigato il sottoscritto è stato quello di Norm e della sua indagine sui misteri del Vault). Operazione resa possibile proprio dal fatto che il ciclo videoludico di Fallout non ha un protagonista unico e che i suoi episodi sono un intreccio di missioni varie: la serie dispiega i suoi percorsi all’interno di tali possibilità riprendendo elementi dai videogiochi ma anche aggiungendone di nuovi.

In conclusione Fallout serie mi è piaciuta a tal punto che sto seriamente pensando di ri-giocare il primo episodio videoludico (quello che ho amato di più) visto che è disponibile sia su Steam che su GOG.

Post scriptum (da non leggere se non volete spoiler): per tutti gli otto episodi della serie mi ha indispettito non ritrovare all’inizio l’iconico refrain della serie: “War. War never changes…”. Per fortuna alla fine mi sono ricreduto…

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