
Come è possibile constatare anche facendo una banale ricerca qui sul blog, quello dei “First Person Shooters” (cioè “sparatutto in prima persona”, anche con la sigla FPS), è uno dei generi videoludici che amo maggiormente. In anni passati ho collaborato appassionatamente ad una sorta di enciclopedia online, Fps Italian Team, che è stata per vari anni la risorsa in italiano più esaustiva e completa su questo genere videoludico, mentre purtroppo negli ultimi tempi non è seguita in modo puntuale e continuativo. È perciò stata una piacevolissima sorpresa il venire a conoscenza dell’“enciclopedia” I’m Too Young To Die. The Ultimate Guide To First-Person Shooters 1992-2002 curata da Stuart Maine per Bitmap Books. Il titolo riprende il livello più basso di difficoltà di DOOM e il volume ha dimensioni 210 mm × 297 mm ed è composto da 424 pagine con copertina rigida per complessivi 3 kg (e c’è anche la “collector’s edition” con il libro contenuto in un elegante e ingombrante cofanetto): per cui può tranquillamente utilizzato anche come peso per allenamento. Il libro comprende le schede di oltre 200 giochi, divisi per gli anni che vanno dal 1992 (anno di uscita di Wolfenstein 3D, segnato come capostipite del genere) fino al 2002. Oltre alle schede dei giochi, la guida contiene anche interviste a 13 tra i protagonisti di questa stagione videoludica, a cominciare da John Romero (che oltre all’intervista, firma anche l’introduzione), Ken Levine, Warren Spector, ecc.
I’m Too Young To Die non è però “solo” una raccolta di schede – anno per anno – di videogiochi FPS (indipendentemente dalla piattaforma per cui sono stati sviluppati). Intanto si pone un problema definitorio: cosa è qualificabile come “first person shooter”? Non basta che abbia la visuale in “soggettiva” o che permetta al giocatore di “sparare” mediante il personaggio controllato. Ricordo una diatriba coi “colleghi” di Fps Italian Team in cui io sostenevo che un gioco in soggettiva in cui si impersonava un fotografo che doveva scattare fotografie (“to shoot”) alla fauna selvaggia poteva essere considerato un FPS, interpretazione contestata dai “colleghi” così come la contesterebbe Maine. Sostiene infatti che oltre alle due caratteristiche sopra menzionate, un videogioco, per essere considerato un FPS deve dare al giocatore la possibilità di decidere spostamento e linea di fuoco (quindi sono esclusi gli “sparatutto su binari” dove il giocatore non può decidere la direzione in cui spostarsi) e deve prevedere degli opponenti (controllati dal computer se in single player o da altri giocatori se in modalità multiplayer) che a loro volta contrastino, per lo più anche loro sparando, il protagonista. Maine va oltre e espone in modo analitico gli elementi costitutivi della grafica e del gameplay di questo genere.
Da questo punto di vista il genere videoludico degli FPS sembra essere estremamente poco vario, soprattutto dal punto di vista del gameplay, ma Maine mostra che questa apparente scarsa varietà è compensata dal fatto che i FPS sono stati in questo decennio un vero banco di prova per l’hardware commerciale: sottolinea infatti come le schede video sono nate e vissute non per supportare il lavoro dei grafici, ma quasi esclusivamente per permettere agli acquirenti di giocare con i più nuovi ed esosi (in termini di risorse di calcolo) FPS. E un altro elemento estremamente interessante del libro è l’introduzione di Maine ad ogni annata, dove analizza le caratteristiche dello sviluppo del genere sullo sfondo sia del più ampio medium videoludico, sia dell’evoluzione di consolle e di pc dedicati al gioco, sia alle fluttuazioni del relativo mercato.
In realtà il libro inizia da molto prima del 1992 con i precursori, tra cui Maze War del 1973, ma il primo videogioco ad avere tutte le caratteristiche del FPS da lui individuate è, come ricordato, Wolfenstein 3D realizzato, nel 1992 da id software. E id software, di cui uno dei programmatori iconici è stato John Romero, è la software house che inevitabilmente fa da fil rouge a tutto il volume perché riesce per tutto il decennio a proporre delle pietre miliari con cui le altre software house devono confrontarsi o per adeguarsi – magari sfruttando lo stesso motore di gioco – o per tentare di creare giochi con gameplay originale: DOOM, DOOM II, Quake, Quake II, Quake III Arena. Tra i giochi invece che riescono a differenziarsi dal modello id non si può non menzionare Duke Nukem 3D, Half-Life, Deus Ex, Goldeneye 007, Halo: Combat Evolved, System Shock, Tom Clancy’s Rainbow Six, ecc. Ma anche FPS “tradizionali” sono riusciti ad avere un posto importante nel genere senza innovare il gameplay ma piuttosto proponendo esperienze di gioco coinvolgenti come Blood, Counter-Strike, la trilogia di Heretic/HeXen, Medal of Honor, Metroid Prime, Serious Sam: The First Encounter, The Operative: No One Lives Forever, ecc. Oltre ai successi, Maine analizza anche alcuni insuccessi a proprio modo clamorosi, come Daikatana o Trespasser: The Lost World – Jurassic Park che permettono, attraverso gli sbagli compiuti da sviluppatori e/o produttori, di capire punti di forza e di debolezza del genere, anche a livello economico.
Le interviste (poste alla fine delle schede di ogni annata per sottolineare una delle opere maggiormente rappresentative attraverso il colloquio con uno dei suoi realizzatori) aggiungono spessore alla descrizione. Mi sembra in particolare significativa quella a Warren Spector, autore di Deus Ex, che racconta così il suo approccio alla creazione del videogioco:
From day one I wanted Deus Ex to be about something, not just a way to waste a few hours. I’ve always felt thta games could be one of the must powerful tools for getting people to think about things in the real world and decide for themselves how they felt about those things.
One way to think about it is that movies and books TELL you things. The author or director says “here’s a thing and here’s what I think about it”. They make statements. Games are different. Designers can say “here’s a thing; what do YOU think about it?” Games can ask questions and let players answer them through their play choices. That was part of the reason to make Deus Ex at all – to get players thinking about the state of the world and the possible ramifications of choices being made in the real world. (p. 318)
Fin dal primo giorno ho voluto che Deus Ex parlasse di qualcosa, che non fosse solo un modo per perdere qualche ora. Ho sempre pensato che i giochi potessero essere uno degli strumenti più potenti per spingere le persone a riflettere su questioni del mondo reale e a decidere da sole cosa ne pensano.
Si potrebbe dire che i film e i libri ti dicono le cose. L’autore o il regista afferma: “Ecco una cosa ed ecco cosa ne penso io”. Fanno delle affermazioni. I giochi sono diversi. I designer possono dire: “Ecco una cosa; cosa ne pensi TU?”. I giochi possono fare domande e lasciare che i giocatori rispondano attraverso le loro scelte di gioco. Questo è stato uno dei motivi principali per cui ho creato Deus Ex: far riflettere i giocatori sullo stato del mondo e sulle possibili conseguenze delle scelte che vengono fatte nella vita reale. [tradotto con l’aiuto di Gemini]
In conclusione I’m Too Young To Die è certo un simpatico modo per fare il gioco “ce l’ho / mi manca” o per ricordare giochi fatti da giovani (per chi ha la mia età) e che ci hanno segnato, o per scoprire gli antenati dei giochi di cui tutti parlano oggi (qualcuno ha detto: Doom, ancora?) e magari incuriosirsi e andarli a provare (molti sono – magari in versione rimasterizzata – su GOG o su Steam) o perlomeno a vederne il gameplay su YouTube.
E il bello è che ovviamente non finisce qui: è infatti già stato pubblicato il secondo volume Hurt Me Plenty che, a dimostrazione della fortuna del genere e del moltiplicarsi dei titoli, non copre un decennio ma – per mantenere la stessa paginazione – solo otto anni dal 2003 al 2010. E ovviamente sarà l’oggetto di un altro post. Tuttavia la speranza è che questi volumi (e gli altri che eventualmente seguiranno) siano tradotti anche in italiano, o che qualche editore italiano si decida a commissionare a studiosi locali un’opera altrettanto utile e interessante.




Post Scriptum: come piacevole “gioco nel gioco”, all’inizio del libro c’è una galleria di ritratti in pixel dei game designer intervistati all’interno e, alla fine del livello (pardon, del libro) c’è la stessa galleria dei game designer usciti malconci dallo stesso (e chissà perché Romero è il meno malmesso…).




Link nel post:
- Fps Italian Team: https://www.fpsteam.it
- Pagina dedicata a I’m Too Young To Die sul sito di Bitmap Books: https://www.bitmapbooks.com/collections/video-game-history/products/i-m-too-young-to-die-the-ultimate-guide-to-first-person-shooters-1992-2002

Scrivi una risposta a John Romero ospite a Lucca Comics & Games – ossessioni e contaminazioni by francesco mazzetta Cancella risposta