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Normalmente compro la serie Panini Comics dedicata a Batman, ma devo confessare un terribile ritardo nella relativa lettura. Onestamente preferisco la lettura delle storie raccolte in volume, ad esempio l’ultima letta – bellissima – Batman: Terra Uno in tre volumi (in cofanetto) di Geoff Jones e Gary Frank. Così non sapevo assolutamente di cosa stesse parlando la mia edicolante di fiducia quando mi ha chiesto se volevo il “blind pack” di Batman. Ma ho dato un’occhiata e ho visto trattarsi del n° 1 della nuova serie Batman e Robin (Panini Comics) scritta da Joshua Williamson e disegnata dal “nostro” Simone Di Meo. Ovviamente non potevo non acquistare il numero e (nonostante mi sia capitata inevitabilmente la versione “regular” della copertina) leggerlo subito.

Mi è piaciuto?

No. Ma è ovvio che non mi sia piaciuto. Non sono assolutamente il target di questa serie: la grafica di Di Meo si allinea a quella dei manga e i suoi colori a quelli dei web comics. Ora non è che sia digiuno di manga e, anche se non rincorro le novità, seguo con estremo interesse Hiromu Arakawa e mi sono lasciato consigliare da amici e fumettisti sui social diverse opere brevi (l’ultima Flow di Yuki Urushibara) che ho letto con piacere. Quello che non gradisco nella grafica usata da Di Meo per Batman e Robin è l’ipercinetismo perenne, anche per le tavole che raffigurano banali situazioni domestiche, e i colori che danno l’impressione di essere sempre a Times Square a mezzanotte. E la storia? Essendo stato fatto fuori Alfred (un maggiordomo era ormai effettivamente troppo fuori moda) Bruce Wayne e suo figlio Damian (l’ultimo Robin) si trasferiscono dalla famosa villa Wayne in una residenza nel centro di Gotham. I due numeri contenuti nello spillato ci raccontano sia di scontri con nemici vecchi e nuovi, sia di come Bruce cerchi di allacciare un dialogo col figlio e di convincerlo ad una vita “normale” come, ad esempio, andare a scuola e farsi degli amici.

In realtà Damian Wayne non è un nuovo personaggio: è stato introdotto da Grant Morrison del 2006 e l’idea arriva da una graphic novel ancora più vecchia: Son of the Demon (del 1987) scritta da Mike W. Barr e disegnata da Jerry Bingham (in italiano: Il figlio del Demone, ma io ho l’edizione originale). Barr e Bingham ci raccontano di una relazione tra Bruce Wayne e Talia al Ghul, figlia di Ra’s al Ghul, da cui alla fine si capisce essere nato un bambino di cui Bruce è inconsapevole. Grant Morrison riprende quel figlio lasciato fino ad allora nel dimenticatoio facendolo crescere ed addestrare in maniera spietata dalla madre all’interno della Lega degli Assassini. Il carattere di Damian, aggressivo e sbruffone, ricorda un po’ quello di Jason Todd, anche se in versione più leggera (è più giovane) e meno autodistruttiva.

Questa nuova serie non è la prima del duo composto da padre e figlio dato che ne erano già uscite altre due nel 2009 e nel 2011. A differenza di quelle, questa nuova serie si differenzia radicalmente dalle serie canoniche di Batman proprio grazie all’impostazione grafica sopra richiamata che si va a porre su un radicale re-design dei personaggi: in particolare Bruce Wayne è ringiovanito, meno “massiccio” e anche esteticamente più affascinante. Il Batman di Di Meo, a livello di anatomia grafica, si avvicina a quello in cui sotto al cappuccio stava Dick Grayson nel ciclo in cui si pensava che Bruce fosse morto. Vale lo stesso discorso anche per i nemici: esemplare il re-design di Killer Croc, non più “squamoso”, grosso ma non enorme (come ad esempio nel videogioco Batman: Arkham Asylum), forte ma non imbattibile anche usando solo la forza bruta.

Insomma è naturale che questo nuovo Batman e Robin non mi sia piaciuto perché il target di questa nuova serie è fin troppo palesemente adolescenziale. Del resto il personaggio di Batman fa la sua apparizione nel 1939 e non sarebbe sopravvissuto fino ad oggi se gli autori che si sono succeduti non avessero saputo rinnovarlo. Io stesso, che ho iniziato a leggerne le avventure negli anni ‘70, non lo avrei fatto di fronte alle prime storie – legate alle narrazioni di cappa e spada attualizzate nei drammi radiofonici – mentre ho amato il dinamismo impresso da autori come Dennis O’Neil con il collegamento che facevano all’attualità. E probabilmente misuro qualsiasi storia di Batman anche con quel metro.

Tuttavia mi rimane comunque qualche perplessità legata non alla storia o alla grafica, ma alla strategia editoriale. Se fai un prodotto per un nuovo mercato che cerchi d’intercettare, usando un linguaggio grafico di un altro prodotto (pur nel medesimo contesto mediale), perché utilizzi le strategie editoriali del vecchio prodotto che hanno funzionato per i vecchi lettori? Che senso ha un “blind pack”? Quella è una strategia per i vecchi lettori, anzi magari neppure lettori, ma solo acquirenti che acquistano il numero meramente a fini collezionistici. Al nuovo pubblico, a cui vuoi arrivare, il fumetto lo devi mostrare, devi spingere ad aprirlo, sfogliarlo, vedere che ha un linguaggio grafico pensato per lui. Anzi anche il formato forse sarebbe stato meglio fosse diverso: se dentro ci metti un Batman disegnato con grafica manga, perché non usare – coraggiosamente – anche il formato editoriale dei manga per far capire subito al pubblico dei manga che ti stai rivolgendo a loro?

Link ad altri miei post su Batman:

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