
Solo ora, casualmente, sono venuto a sapere che Netflix, nel 2020, ha pubblicato un remake di Rebecca, la prima moglie, romanzo di Daphne Du Maurier del 1938 e film di Alfred Hitchcock del 1940. Se il romanzo di Du Maurier ebbe un clamoroso successo tanto da risultare l’opera di narrativa più letta nell’anno di prima pubblicazione, il film di Hitchcock (il primo successivo al suo trasferimento negli Stati Uniti) fu l’unico film del regista ad essere premiato con l’Oscar. Nonostante abbia letto il libro della Du Maurier forse 30/35 anni fa, il suo incipit è uno di quelli che ricordo con maggiore vividezza:
Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley. Mi pareva di essere al cancello che dà sul viale d’ingresso, e non potevo entrare: la via era sbarrata. Una catena con un lucchetto chiudeva il cancello. In sogno chiamavo il guardiano, ma nessuno mi rispondeva, e accostandomi a guardare di tra le sbarre arrugginite, mi accorgevo che la casetta era disabitata.
Non un fil di fumo usciva dal camino, e le finestrelle ingraticciate sembravano grandi occhi sconsolati. Poi, come accade in sogno, dotata di sovrannaturale potenza, simile a uno spirito, passavo attraverso la barriera che m’impediva la via.
[…]
In realtà mi trovavo centinaia di miglia lontano, in terra straniera, e fra pochi secondi mi sarei svegliata nella nuda cameretta d’albergo, la quale, col suo aspetto comune, mi rassicurava. Un momento avrei sospirato, stirando le braccia e voltandomi; e aprendo gli occhi, ancora una volta avrei stupito alla vista di quel sole smagliante, di quel cielo terso e duro, tanto diverso dal dolce chiaro di luna del mio sogno. E davanti a noi avremmo avuto la giornata, oh, quanto lunga, senza eventi, ma piena di una certa qual pace, di una cara tranquillità che non avevamo conosciuto prima. Né avremmo parlato di Manderley, né io avrei raccontato il mio sogno. Poiché Manderley non era più nostro. Manderley non era più.
Last night I dreamt I went to Manderley again. It seemed to me I stood by the iron gate leading to the drive, and for a while I could not enter, for the way was barred to me. There was a padlock and chain upon the gate. I called in my dream to the lodge-keeper, and had no answer, and peering closer through the rusted spokes of the gate I saw that the lodge was uninhabited.
No smoke came from the chimney, and the little lattice windows gaped forlorn. Then, like all dreamers, I was possessed of a sudden with supernatural powers and passed like a spirit through the barrier before me.
[…]
In reality I lay many hundred miles away in an alien land, and would wake, before many seconds had passed, in the bare little hotel bedroom, comforting in its very lack of atmosphere. I would sigh a moment, stretch myself and turn, and opening my eyes, be bewildered at that glittering sun, that hard, clean sky, so different from the soft moonlight of my dream. The day would lie before us both, long no doubt, and uneventful, but fraught with a certain stillness, a dear tranquillity we had not known before. We would not talk of Manderley, I would not tell my dream. For Manderley was ours no longer. Manderley was no more.
La potenza di Rebecca è legata alla genialità dell’autrice: Rebecca, il personaggio che da il titolo alla storia e che, a buona ragione, possiamo dire essere il protagonista, è morto e non lo incontriamo mai direttamente nella narrazione se escludiamo ritrovamento del cadavere verso la conclusione. La voce narrante, che pure dovrebbe essere la protagonista della storia, nella storia (né nel romanzo, né nei suoi adattamenti cinematografici), viene mai “nominata”: è una figura “anonima”, descritta come dimessa ed in tono minore fin dall’assenza del nome con cui identificarla. Una donna, in realtà una ragazzina, innamoratasi di un uomo più vecchio di lei e di una classe sociale distantissima dalla sua, che si sente in perenne competizione con la di lui prima moglie – Rebecca appunto – non solo distinta e mondana, ma addirittura la più bella donna che si sia mai vista. Fino a scoprire, dopo innumerevoli incresciosi incidenti nel tentativo di avvicinarsi a quell’irraggiungibile vetta, che Maxim De Winter – vedovo di Rebecca e suo marito – non aveva mai amato Rebecca, ma al contrario la odiava e forse (neanche lui ne è certo) l’ha uccisa.
Nel romanzo un geniale mix di romance alla Harmony, storia gotica e thriller psicologico. Hitchcock si lamentava della trivialità romantica delle storie della Du Maurier, anche se in realtà si tratta dell’autrice da lui più saccheggiata, dato che – oltre a Rebecca – sono ispirati a sue opere anche La taverna della Giamaica (1939) e Gli uccelli (1963). Se Rebecca è stato il suo primo film americano, può a buon diritto essere considerato anche il suo ultimo film inglese visti la storia da cui trae ispirazione, l’ambientazione e l’origine dei protagonisti: Sir Laurence Olivier nei panni di Maxim De Winter e Joan Fontaine nei panni della seconda signora De Winter.
Scopro in realtà che oltre alle due opere cinematografiche, ci sono diverse produzioni (seriali o meno) televisive. Non le ho viste (anche se a questo punto sono curioso e cercherò di recuperare quanto possibile) e qui mi focalizzerò solo sul confronto tra il romanzo e le due opere cinematografiche: quella di Hitchcock del 1940 e quella del 2020 di Ben Wheatley.
GQ Italia, all’epoca della sua uscita, aveva parlato del film di Wheatley con un articolo dal titolo assai esplicativo: «Rebecca», il remake di cui potevamo tranquillamente fare a meno. Sicuramente il film – anche considerando il periodo di lockdown in cui è uscito – ha avuto una promozione e visibilità inferiore al normale e l’ambientazione “storica” mantenuta fedele all’originale non ha forse giovato all’appeal del grande pubblico. In realtà, se non si dovesse confrontare col capolavoro hitchcockiano, la Rebecca wheatleiana non sarebbe un’opera disprezzabile. Anche in confronto con Hitchcock, Wheatley può vantare qualche punto di forza:
Mrs. Danvers, la governante, interpretata da una splendida Kristin Scott Thomas. La Mrs. Danvers hitchcockiana (interpretata da Judith Anderson) fin dal primo istante in cui la vediamo siamo sicuri sia la “cattiva” della storia (in realtà la cattiva è Rebecca, ma questo invece lo scopriamo solo alla fine). Non è questione di pregiudizio o razzismo: semplicemente la Danvers hitchcockiana è disegnata così. Al contrario la Danvers wheatleyana, al netto di alterigia e altezzosità, può sembrare, al digiuno della storia, semplicemente la classica governante inglese fin troppo compresa nel proprio ruolo di generale delle truppe costituite dai domestici.
- Manderley, nella pellicola hitchcockiana, non solo a causa del bianco e nero, è troppo spesso una quinta anonima che serve solo da palcoscenico alla recitazione: nella Rebecca wheatleyana invece è quasi essa stessa un personaggio coi suoi saloni rigurgitanti quadri, statue e mobilio, e ancor più negli incubi notturni a subissare oppressivamente la giovane moglie.
Dove invece la Rebecca wheatleyana frana miseramente nel confronto è sui due protagonisti: da una parte abbiamo due relativamente anonimi Arnie Hammer nel ruolo di Maxim De Winter e Lily James in quello della seconda signora De Winter e dall’altra due monumenti quali i già citati Laurence Olivier e Joan Fontaine. Al di là della differenza di caratura attoriale, la scelta di Hitchcock si rivela vincente per due motivi:
la differenza di età tra Olivier e Fontaine che si rispecchia in quella tra i protagonisti. I personaggi messi in scena da Wheatley sembrano poco più che coetanei, mentre è rilevante la differenza sia reale sia apparente tra Oliver/Maxim e Fontaine/signora De Winter: nella storia la futura signora De Winter è poco più di una adolescente che si innamora del torturato Maxim anche per la distanza che li divide, sia per censo che per età. Non un caso che la dama di cui è accompagnatrice, sicuramente per gelosia, ma anche come forma di non cosciente preoccupazione, la metta in guardia sulla sua non adeguatezza. In questo senso il Maxim di Laurence Olivier è più assente e distante di quello di Hammer e contribuisce ad accrescere l’angoscia sia nella giovane moglie sia nello spettatore.
- l’interpretazione di Joan Fontaine. Hitchcock dichiara a Truffaut, nella giustamente famosa intervista, che gli attori sono bestiame. È compito del regista, durante il montaggio, creare sequenze che ne esaltino psicologie ed emotività. È altrettanto noto il fastidio che in lui procurava la recitazione calcata, da “Actors Studio”, di Paul Newman, con cui lavorò in Il sipario strappato (1966). Ma, caso più unico che raro, lascia libera nel suo Rebecca Joan Fontaine di esprimere tutta una gamma di variazioni di disagio che la giovane ragazza sperimenta lungo il corso della storia. Dato che il film completo (anche in italiano) di Hitchcock è su Youtube, prendetevi per favore la briga di andarvi a vedere anche solo pochi minuti iniziali:
quando, nel salone dell’hotel di Montecarlo quando con la dama che accompagna incontra casualmente De Winter (che solo poche ore prima aveva impedito che si gettasse da una rupe ottenendone in cambio solo sonoro rimbrotto). Hitchcock inquadra il terzetto costituito da Maxim di spalle, la signora Van Hopper in primo piano e in secondo piano la futura signora De Winter, leggermente fuori fuoco. Osserviamo la sequenza: Maxim e Van Hopper discutono più o meno amabilmente, ma l’attenzione dello spettatore è attratta propria dalla ragazza che sembra silenziosamente dibattersi e che visibilmente vorrebbe non essere lì, vergognosa del doversi confrontare con la persona con cui prima s’era scontrata.- poco più avanti, mentre la ragazza e De Winter danzano, lei si perde nei suoi pensieri e lui la guarda sorridendo. Lei se ne accorge e sorride imbarazzata.
- durante la successiva gita in macchina, quando lui la sgrida perché lei si rosicchia le unghie lei sbotta che vorrebbe essere una trentaseienne vestita di nero con una collana di perle: cosa che ovviamente De Winter detesterebbe (perché altrimenti fare il galante con una ragazzina?) ed in qualche modo questo episodio (assente nel Rebecca wheatleyano) spiega il disagio del marito ai tentativi di “rebecchizzarsi” della nuova moglie.
Per quanto riguarda Joan Fontaine è anche da ricordare come sia proprio Rebecca a darle la notorietà dopo alcuni film non particolarmente fortunati e che conquisterà il suo Oscar col successivo film, interpretato sempre per Hitchcock: Il sospetto (1941).
Entrambe le opere hanno una durata simile, anche se la Rebecca wheatleiana sembra durare di più per un passo meno serrato e più “descrittivo”. Entrambi poi, ciascuno a proprio modo “tradiscono” il romanzo: Hitchcock lascia la signora De Winter nel castello dato alle fiamme creando la suspense per la sua salvezza mentre Wheatley si spinge a mostrare la signora Danvers che non solo da alle fiamme Manderley, ma pure il cottage sulla scogliera per poi concludere la vita come la sua amata padrona. Ma la mano di calibro diverso si nota fin dall’inizio. Entrambi aprono sulla scena onirica prefigurata nell’incipit scritto dalla Du Maurier e riportato all’inizio. Ma dove Wheatley inquadra la signora De Winter di spalle (in terza persona), Hitchcock sceglie (scelta tanto meno scontata negli anni ‘40) una visuale in soggettiva dove è lo spettatore ad attraversare come un fantasma il cancello chiuso e ad avvicinarsi al castello in rovina.
Sarebbe forse stato interessante un lavoro di riscrittura e attualizzazione della storia come fatto da D.J. Caruso nel 2007 con Disturbia che ha riscritto La finestra sul cortile (1954). Resta il fatto che nonostante i limiti tecnici e di budget, la capacità di Hitchcock di raccontare storia con il mezzo cinematografico resta ineguagliato, e ciò dovrebbe far riflettere il cinema odierno (anche e soprattutto quello di “cassetta”) sulla necessità di raccontare bene storie coinvolgenti.

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