Ho finito di leggere il libro di Jordan Erica Webber e Daniel Griliopoulos Ten Things Video Games Can Teach Us (About Life, Philosophy and Everything) (Robinson, 2017) e le mie attese erano decisamente alte. Purtroppo le stesse si sono progressivamente ridimensionate come è possibile vedere dai miei commenti in fieri pubblicati qui e qui. Alla fine del libro ho pubblicato sulla scheda Anobii il seguente lapidario contributo:
Cosa hanno da dire i videogiochi sul mondo, sulla vita e sulla società? Questo il tema del libro, apparentemente assai stimolante, che vuole analizzare quanta e quale filosofia ci sia nei videogiochi. Il maggior problema del libro è il suo essere altalenante tra parti assolutamente interessanti con riportata la voce degli stessi sviluppatori, ed altre avvilenti per come la filosofia, soprattutto la filosofia occidentale moderna (Kant, Hegel, Marx, ecc.) sia stata mal digerita e compresa. Non un caso che i riferimenti maggiormente pertinenti siano fatti coi filosofi antichi (su tutti Platone e Aristotele) e con non eccessivamente noti contemporanei. Per dire: Kierkegaard e Schopenhauer non sono mai citati, Heidegger ottiene una sola menzione e Nietzsche 2.
Forse più che tentare di affrontare tutto lo spettro filosofico dalla vita oltre la morte alla società ideale (dimenticavo: non sono mai citati neppure Moro o Campanella) gli autori avrebbero potuto focalizzarsi su un unico tema ed approfondire a dovere quello.
In sostanza un libro utile più per quello che avrebbe potuto essere che per quello che realmente è.
Richiamare Nietzsche tuttavia mi ha portato a riflettere su una saga videoludica ben poco considerata all’interno del libro di Webber e Griliopoulos e che invece poteva porre questioni estremamente interessanti sul tema della “libertà”: God of War. Nella saga che lo vede protagonista, Kratos ha il destino di combattere le divinità dell’Olimpo, incapace di sfuggire alla hybris segnata dai passati peccati. Kratos è dunque l’ideale personificazione dell’Übermensch nietzscheano, intriso della volontà di potenza di ergersi contro gli dei che vorrebbero condizionare il suo destino e contemporaneamente incapace di sottrarsi al destino tragico dell’eterno ritorno dell’identico che nel suo caso è la lotta infinita contro le divinità anche quando vorrebbe sottrarsi ad esso e ritrarsi ad una vita anonima con la propria famiglia. Da un certo punto di vista nulla costringe Kratos, ed egli è libero di fare quello che più lo aggrada, tanto più che può contare sulla sua forza e sulla sua abilità bellica. Ma da un altro punto di vista egli è schiavo del suo destino ed anche nell’ultimo episodio, in cui pure è fuggito in una terra diversa dominata da altre divinità, egli è costretto a combatterle. Estremamente significativo in questo senso il momento in cui il figlio Atreus uccide il figlio di Thor lasciando sgomento Kratos che si rende conto di aver iniziato una nuova faida divina con un pantheon norreno molto meno idilliaco di quanto propagandi la vulgata marveliana.
Webber e Griliopoulos discettano sullo iato tra libertà “da” e libertà “per” pensando che non si dia la prima, costretta nella catena di causa ed effetto che lega il mondo materiale mentre sia possibile all’essere umano la seconda. God of War sembra proporre al contrario una visione ribaltata: nulla costringe Kratos, nulla può farlo data la sua natura divina: eppure Kratos non è libero di decidere il proprio destino che ha il marchio incancellabile dei peccati di cui s’è macchiato. Sempre nell’ultimo episodio l’unica cosa in grado di deviare parzialmente la sua hybris non è tanto la volontà di Kratos quanto quella della moglie che, legandolo al giuramento di spargere le proprie ceneri dalla vetta più alta, lo costringe ad un viaggio in cui conoscere e stringere un legame col figlio, che però inevitabilmente porterà come conseguenza quella di affrontare e combattere le divinità norrene.
Quante volte questo capita anche ad ognuno di noi? Teoricamente liberi di scegliere cosa fare, ricadiamo (inevitabilmente?) nella ripetizione degli errori del passato. Schiavi non di catene fisiche ma del nostro destino, incapaci di liberarci dalla nostra personale hybris.

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