Seguendo quanto affermato da Alfred Hitchcock, l’elemento che caratterizza il cinema (rispetto ad esempio al teatro, ma rispetto oggi anche ai new media come i videogiochi) è il montaggio. Famosa la sua dimostrazione di ciò: la stessa inquadratura di James Stewart se accostata ad una donna discinta faceva pensare agli spettatori a sentimenti di lussuria, mentre accostata a immagini delicate faceva pensare a tenerezza. Nonostante ciò, forse per mettere crudelemente alla prova (anche) se stesso, Hitchcock realizzò un film spostando il montaggio dalla sua “normale” collocazione – la post-produzione – alla pre-produzione: Nodo alla gola (Rope, 1948). Nodo alla gola è costituito da un unico piano sequenza (in realtà 10 collegati tra loro da espedienti scenografici) in modo da dare allo spettatore l’illusione che tutto il film sia costituito da un’unica ripresa. Tutta la parte di costruzione delle varie scene del film che normalmente avviene nella fase del montaggio durante la post-produzione, cioè successivamente alle riprese, avviene in Nodo alla gola attraverso un’accurata pianificazione preliminare. A dimostrazione – paradossalmente – è un elemento non solo cinematografico ma anche teatrale. Ma il fatto che tale utilizzo del montaggio sia rimasto un esperimento isolato d’altra parte conferma quanto sostenuto da Hitchcock.
Questa premessa per parlare di due film che in qualche modo riprendono e rimaneggiano l’esperimento hitchcockiano: Hardcore! (Hardcore Henry, 2015) di Ilya Naishuller e Searching (idem, 2018) di Aneesh Chaganty, entrambi prodotti da Timur Bekmambetov.
Hardcore! è un film d’azione e di fantascienza con la caratteristica di essere completamente girato in prima persona (la prospettiva che videoludicamente viene chiamata “first person shooter”). Per quanto gli stacchi (e quindi il montaggio) non siano del tutto assenti, per la maggior parte del tempo lo spettatore assiste a lunghi piani sequenza in soggettiva che ci mostrano il protagonista – Henry – che dopo un misterioso risveglio in laboratorio privo di ricordi viene attaccato ed inseguito da una misteriosa organizzazione criminale che vuole sfruttare i cyber-potenziamente di cui il protagonista progressivamente scopre di essere dotato.
In Searching invece seguiamo tutto il plot di un padre – interpretato da John Cho, reso famoso per l’interpretazione di Sulu nello Star Trek abramsiano – che indaga sulla scomparsa della figlia attraverso lo schermo del suo computer perennemente accesso per messaggi, videochiamate e ricerca di informazioni.
L’esperimento in Hardcore! in realtà riguarda più la prospettiva dell’inquadratura che il montaggio vero e proprio in quanto come ricordato esistono in effetti stacchi che dividono i piani sequenza. L’idea di Hardcore! nasce dalla visione su Youtube da parte di Bekmambetov dei video in prima persona realizzati da Naishuller per il proprio gruppo rock e dal successivo incontro dei due nasce la sfida di un intero film girato in prima persona con il ritmo e l’azione concitata di un videogioco. A differenza di altri film in cui la soggettiva viene cospicuamente utilizzata, in Hardcore! il protagonista all’inizio del film è praticamente tabula rasa: non sa chi è, dove si trova e cosa gli è successo. In questo senso lo spettatore ha minori difficoltà ad identificarsi con esso rispetto a personaggi “invisibili” ma con una storia e personalità che faticano ad essere “visualizzate” e comprese con una visuale in soggettiva. Del resto anche in molti videogiochi definibili sparatutto in soggettiva il protagonista viene visualizzato in terza persona nelle “cut-scenes” in modo da fornirgli un volto ed un background grafico ed emotivo. E la soggettiva funziona in effetti benissimo nelle scene maggiormente concitate e violente o nel finale in cui si risolve la questione dell’identità del protagonista come una sorta di scatole cinesi o piuttosto di specchi contrapposti. Meno convincente resta quando ci troviamo a visualizzare fasi maggiormente d’intermezzo, dialogiche e/o di confronto non violento con altri personaggi.
In Searching al contrario assistiamo ad un ipermontaggio finalizzato ad eliminare nello spettatore l’esperienza del montaggio cinematografico. In sostanza è come se lo spettatore, per tutta la durata del film guardasse lo schermo del computer del protagonista, David Kim, intento ad indagare sulla scomparsa della figlia. Anche quando David collabora alle ricerche sulle rive di un lago, lo spettatore lo osserva attraverso un notiziario televisivo visto dallo schermo del computer. Ovviamente il clou della storia è inevitabilmente legata allo scandaglio sulla vita social della figlia, alla ricerca dei suoi più ambigui follower, all’apertura delle cartelle all’interno del suo computer alla ricerca di indizi, per quanto dolorosi e controversi per il padre.
In sostanza entrambi i film tentano di utilizzare le grammatiche visive e narrative tipiche dei “new media” (i videogiochi Hardcore! e i social Searching) piegandole alla narrazione cinematografica. E il problema più grosso di questi pur pregevoli ed interessanti esperimenti è che, alla lunga, entrambi annoiano. Il flusso di coscienza a cui si piegano li priva della possibilità di utilizzare un altro espediente (non esclusivamente cinematografico) di cui era maestro Hitchcock: la “suspence”. Hitchcock spiega cosa sia la suspance in modo magistralmente semplice nel suo libro-intervista con François Truffaut: se in una scena all’improvviso in una stanza scoppia una bomba è una sorpresa; se invece vediamo l’attentatore che piazza una bomba in una stanza e poi vediamo dei personaggi che entrano in quella stanza ignari del prossimo esplodere della bomba ecco che s’innesca la suspance. Il tempo della visione non è più un tempo neutro con una sorpresa finale, ma piuttosto una partecipazione angosciata al precipitarsi degli eventi. Lo spettatore vorrebbe avvertire i personaggi, anche se per assurdo quei personaggi fungessero da cattivi, e i questo modo viene coinvolto emotivamente dalla narrazione. Sia in Hardcore! sia in Searching invece la narrazione è sempre un eterno presente osservata dal punto di vista del protagonista. Nessuna suspance e possibile e, fatti salvi i momenti concitati – presenti in misura maggiore nel primo – il resto scorre via senza lasciare particolare traccia. Perché non capita lo stesso davanti ad un videogioco o in un social? Perché lì non siamo esclusivamente spettatori ed abbiamo la possibilità – o almeno l’illusione – di poter contare qualcosa sulla progressione della narrazione. Da qui l’impressione che sia più facile per i new media imparare ad utilizzare ed adattare la grammatica cinematografica che non viceversa. In particolare a livello videoludico osserviamo narrazioni sempre più raffinate (basti pensare anche solo agli ultimi Uncharted) che si integrano in maniera eccellente con l’interattività ludica. Dall’altra parte per il cinema è molto più complicato forzare ed adattare in maniera significativa le proprie grammatiche e si riduce spesso ad essere – per quanto riguarda i film ispirati ai videogiochi – qualcosa di vicino ad una raccolta di cut-scenes.Non di meno questi esperimenti dimostrano un interesse tutt’altro che criticabile ed una ricerca assolutamente da non tralasciare.
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