
Su Domenica, l’inserto domenicale (che fantasia eh, i confindustriali?) del Sole 24 Ore di domenica 29 aprile 2012 c’è un’intera pagina dedicata alla “Cultura digitale” (p. 37) dove si può leggere un ampio articolo su Journey, la recensione del volume di Tom Bissell Voglia di vincere (Isbn) e un pezzo di Emilio Cozzi (da qui il gioco di parole, ammetto stupidino, del titolo) a titolo Scordatevi della narrazione (che si può leggere anche qui: http://eventiquattro.ilsole24ore.com/eventi-e-altro/ict/notizie/2012/04/29/scordatevi-della-narrazione.aspx). In esso Cozzi sostiene che
C’è una differenza qualitativa evidente fra la narrazione e il (video)gioco, fra l’atto di raccontare una storia e la partecipazione volontaria a un’attività precipuamente ricreativa, distinta da obiettivi chiari e disciplinata da regole condivise e risultati quantificabili in tempo reale (punteggio, numero di vittorie e sconfitte, feedback tattili e audiovisivi). E per quanto molti videogame contemplino trame vieppiù complesse – valga per tutti l’imponente trilogia di Mass Effect (Bioware), apice di scrittura fantascientifica nel contesto videoludico – la loro analisi narratologica è servita a determinare la differenza sostanziale tra computer game e racconto.
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Nel videogioco l’utente è mosso dal principale scopo di acquisire informazioni sul mondo ludico per dominarne le regole e arrivare alla vittoria, o comunque per prolungare il più possibile la partita. Quella cui punta il videogiocatore è un’esperienza immersiva, capace di coinvolgere i suoi sensi – il tatto ancor prima di vista e udito – e il più possibile subordinata al suo controllo. Non è un caso che i titoli di maggior successo della storia rivelino pretesti narrativi deboli (Donkey Kong o Pacman), inesistenti (Tetris) o addirittura frangenti anti narrativi, come nelle modalità multiplayer di first person shooter tipo Call of Duty (Activision) o Battlefield (Ea), in cui il giocatore è a un tempo sceneggiatore, interprete e regista (audio e video) di quanto visualizzato sullo schermo.
Decisamente si tratta di un dejà vù di quando discutevo con Matteo Bittanti di questo stesso argomento (cfr: https://ossessionicontaminazioni.wordpress.com/2006/01/). E ormai neppure Bittanti, ludologo incallito, si spinge più a questi dogmatismi. Eppure ecco rispuntare la vexata questio della alterità dei videogiochi alla narrazione, della in essenzialità della narrazione nei videogiochi. Per smascherare la malafede e la inconsistenza delle argomentazioni basta guardare attentamente agli esempi addotti dal novello ludologo antinarrativo Cozzi: Donkey Kong, anno di pubblicazione 1981; Pacman, 1980; Tetris, 1984 e sono gli stessi utilizzati per sostenere le medesime argomentazioni da Bittanti nel 2006 e da Juul nel 1999. Cozzi cita anche due giochi più recenti ma dice che occorre limitarsi alla modalità multiplayer.

Proviamo a ripartire dall’inizio. Cozzi dice che c’è una differenza tra l’atto di raccontare una storia e il video giocare come partecipazione volontaria ad un’attività ricreativa. E qui sta il difetto cardine di tutta l’argomentazione: il (video)giocare non è da rapportare al narrare ma semmai al fruire la narrazione, al leggere, all’essere spettatori di una narrazione cinematografica/teatrale. Ovviamente a nessuno verrebbe in mente di sostenere che l’attività del leggere (o del guardare un film, o dell’assistere ad uno spettacolo teatrale) è un’attività narrativa. Il video giocare non è un’attività narrativa ma il videogioco può (e sottolineo: può), anche sostanzialmente, avere a che fare con la narrazione. Come sostenevo nel post linkato all’inizio non si può sostenere che tutti i videogiochi siano narrativi e esaminare tutti i prodotti video ludici con strumenti narratologici ma è altrettanto assurdo sostenere il contrario come torna a fare Cozzi. Rifaccio l’esempio dei programmi televisivi: se ha poco senso analizzare con gli strumenti della narratologie le telecronache degli eventi sportivi o i talk show, lo ha sicuramente analizzare serial o reality. Come per la produzione televisiva, il mondo del videogioco è estremamente variegato ed ha poco senso il volerlo ridurre ad un unicum, narrativo o meno. Occorre piuttosto di volta in volta analizzare ogni opera con gli strumenti maggiormente appropriati, che in alcuni casi sono anche quelli della narratologia. Prendiamo ad esempio Heavy Rain: se il gioco avesse a che fare esclusivamente con “acquisire informazioni sul mondo ludico per dominarne le regole e arrivare alla vittoria” sarebbe di una noia abissale perché l’attività specificamente ludica prevede sostanzialmente la pressione a tempo di specifici tasti (un po’ alla Guitar Hero). Il sottoporsi a questa pratica dunque non è fine a se stesso ma precisamente finalizzato a svelare la narrazione appassionante che costituisce la colonna portante del videogioco e che non a caso propone un thriller in cui occorre sopravvivere per svelare nel finale il colpevole. Anche in un “first person shooter” non sempre – escludendo la modalità multiplayer – la finalità è esclusivamente uccidere tutto quello che si muove sullo schermo. Al contrario narrazioni anche abbastanza sofisticate fanno da sfondo all’attività ludica perché l’attività ludica in sé non basta a qualificare il titolo, a dare al giocatore la motivazione per giocare e in ultima istanza acquistare l’opera. Modern Warfare è tale non solo in quanto sparatutto in prima persona, ma anche in quanto come giocatori siamo immersi in una trama (elemento della narratologia) coinvolgente che vede intrighi terroristici internazionali che sfociano addirittura in una Terza Guerra Mondiale con l’invasione degli Stati Uniti da parte delle forze militari russe.

Per certi versi è davvero triste dover tornare a ripetere cose che sono talmente banali, ma evidentemente tanti che scrivono sui videogiochi, anche su testate apparentemente serie, lo fanno senza avere una reale preparazione sull’argomento e senza premunirsi di dotarsi di un’adeguata bibliografia di supporto. A Cozzi consiglio di aggiornare le sue letture, in particolare con Video game spaces di Michael Nitsche (MIT Press, 2009) che sostiene che l’utilizzo del 3D nei videogiochi di recente generazione (mica degli anni ’80 come quelli portati ad esempio da Cozzi) è intrinsecamente (non può essere non) narrativo. Magari ne possiamo discutere, ma sostenere il contrario è decisamente roba di un’altra epoca videoludica.
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