Ho già scritto, ormai un po’ di anni fa, su un libro di Don Paolo Cugini, quasi mio coetaneo con cui si è stati studenti nello stesso periodo nella Facoltà di Magistero dell’Università di Parma: Visioni postcristiane. Dire Dio e la religione nell’epoca del cambiamento (EDB, 2019). Il suo ultimo libro, Il nome di Dio non è più Dio. Dire il Mistero in un mondo post-cristiano, pubblicato nei mesi scorsi da Effatà, si inserisce e approfondisce le medesime riflessioni là presentate.

Sostanzialmente Paolo riparte dall’iconico giudizio nietzscheano sulla “morte di Dio” per unirvi l’apocalittica constatazione che la Chiesa, intesa come Religione, sta andando in pezzi e che questi esiti – morte e crollo – sono non solo inevitabili ma pure auspicabili. Pur senza mai nominare esplicitamente Marx, Paolo vede nella Religione odierna solo un oppio dei popoli, cioè un ideologia per acquietare le domande e strumento da utilizzare per politici allineati a destra per giustificare una non estensione o addirittura una compressione dei diritti della società, in particolare nei confronti di donne e persone LGBTQ+. Questo il motivo del disinteresse, soprattutto tra i giovani, che non si sentono più offrire senso e risposte da una Chiesa fuori dal tempo (Paolo è missionario in Brasile e riporta anche esempi da quella realtà sociale).

Morte di Dio e crollo della Chiesa non significano però sopprimere la domanda religiosa che si vuole e si deve liberare dalle sovrastrutture della liturgia e della tradizione per permettere a chi sente dentro di sé le domande del Mistero di intraprendere un cammino di scoperta e condivisione. In particolare Paolo critica la teologia cattolica così come elaborata a partire dalle opere di San Tommaso d’Aquino (Dio come motore immobile di un cosmo antropocentrico) riprendendo gli studi dell’astro/fisica su un cosmo in continua oscillazione ed evoluzione che ci impone di ripensare il rapporto tra cosmo e uomo. Un cosmo di cui sottolinea come fondamentale la caratteristica della contaminazione che deve informare anche il rapporto tra la fede cristiana e pensieri e tradizioni di altre culture.

In particolare nella seconda delle tre parti Paolo auspica una riforma radicale della Chiesa che spazzi via completamente la gerarchia soprattutto per come si concretizza nei seminari che dovrebbero formare pastori di anime ma in realtà separano i futuri sacerdoti dalla società e dai suoi bisogni reali. Secondo Paolo il pastore dovrebbe essere scelto dalla propria comunità come una sorta di incarico di volontariato temporaneo (indipendente dal sesso e non necessariamente in condizione di celibato) ad una persona riconosciuta in grado di guidare la comunità nei bisogni spirituali che si intrecciano alla vita comune. Per Paolo la Chiesa deve il più possibile tornare ad essere la comunità di fedeli che seguiva Gesù Cristo cercando di mettere in pratica, giorno per giorno, i suoi insegnamenti.

Paolo riconosce esplicitamente che questa proposta potrebbe essere vista rientrare nella prospettiva della Riforma protestante, se non fosse che la struttura della Chiesa riformata ha da tempo abbandonato le esigenze di riforma della tradizione cattolica da cui era nata per assestarsi anch’essa in una propria “burocratica” tradizione.

Per criticare la formazione dei preti in seminario, Paolo fa riferimento in particolare al sacramento della confessione. Come può, chiede Paolo, il sacerdote riuscire a comprendere il peso del peccato sulla persona che si sta confessando e far concedere, per proprio tramite, dallo Spirito Santo il perdono? Paolo scrive:

C’è, a mio avviso, un abuso della confessione, perché non si aiutano le persone a prendere coscienza di sé. Senza dubbio, la grazia agisce, ma la struttura umana esige la ricerca delle cause, l’abitudine a guardarsi dentro, a scoprire l’origine di ciò che ha provocato il disordine. La semplice indicazione della confessione non risolve quei problemi strutturali che esigono un profondo lavoro non solo spirituale, ma anche umano, fatto di cambiamenti strutturali di abitudini, che passano attraverso scelte radicali. Indicare ai fedeli la confessione frequente, senza aiutarli a intraprendere un serio lavoro umano, che richiede l’assunzione di responsabilità e la verifica costante del cammino intrapreso e delle scelte fatte, è cadere nel miracolismo. Lo stesso fenomeno avviene per quanto riguarda il sacramento dell’eucarestia. Si cade nel miracolismo a buon mercato quando non si accompagnano i fedeli a capire ciò che ricevono, a preparare la propria umanità per fare spazio all’amore di Cristo. (p. 146)

Questa “critica” di come viene utilizzato il sacramento della confessione, in particolare da sacerdoti non umanamente in grado di comprendere la sofferenza del confessante, come una sorta di medicina che però non cura la malattia di chi soffre, mi hanno toccato in maniera particolare perché rispecchiano il mio personale vissuto di travagliato rapporto con l’istituzione cattolica. All’epoca degli studi sono entrato in dissenso con l’ambiente della parrocchia perché lo sentivo come un circolo chiuso a cui uniformarsi piuttosto che un ambiente inclusivo per chi era tormentato da dubbi. Successivamente sono entrato in un gruppo di discussione che comprendeva anche “laici” non inseriti nei percorsi parrocchiali. Anche qui i miei dubbi e critiche sono state ferocemente (e non uso il termine a caso: anche amici e amiche pure all’interno dei percorsi parrocchiali mi hanno offerto la loro solidarietà dopo l’accaduto) rintuzzate dall’esperto teologo in visita con la motivazione che semplicemente i miei non erano dubbi, non erano critiche da avanzare. Infine, dopo il classico percorso prematrimoniale, il giorno delle nozze (nozze religiose, fortemente volute dal sottoscritto, anche per il valore sociale della cerimonia) mi sono confessato. Quello che mi pesava sull’animo era il rapporto conflittuale con i miei genitori, e in particolare con mio padre, morto un anno e mezzo prima. Ma la confessione si è trasformata prima in un conteggio di anni passati senza confessarmi, tradotti meccanicamente in ugual numero di peccati mortali, e poi in una discussione – abbastanza accesa vista il contesto – sul fatto se fossero più deplorevoli e peccaminosi i rapporti prematrimoniali consumati con la futura moglie che il sacerdote mi contestava o il fatto che fossi sempre rimasto a lei fedele e che proprio tale percorso di fedeltà culminasse nelle nozze che io adducevo a mio “merito”. In tutta questa discussione quelli che sentivo come peccati “veri”, quelli che mi pesavano sull’animo, sono rimasti non detti e ignorati, tanto più che erano cose su cui facevo fatica ad aprirmi, figuriamoci con chi mi stava misurando sulle confessioni non fatte e sul numero di rapporti sessuali intrattenuti con la futura moglie (cose invece che certamente non mi tenevano sveglio la notte). Quella è stata l’ultima mia confessione. Ma non perché si siano spenti dentro di me i dubbi, il peso degli sbagli compiuti anche dopo nei rapporti con la moglie e con i figli, il desiderio della ricerca di una qualche luce su quel Mistero che non ha più senso, seguendo Paolo, antropomorfizzare chiamandolo Dio.

Consiglio quindi caldamente – che siate atei o religiosi – la lettura di Il nome di Dio non è più Dio in quanto non solo propone una analisi lucida della religione e della Chiesa da parte di un uomo che ne fa parte ma che usa questo farne parte per mettere in risalto problemi e ombre piuttosto che farne un’acritica agiografia. La consiglio perché riesce a parlare a chi crede ma anche a chi non crede in una prospettiva di inclusione sociale e politica.

Peccato allora unicamente per quella terza conclusiva parte che sembra in qualche misura ritrattare i severi giudizi espressi nelle pagine precedenti per ritornare alla Chiesa-istituzione, chiedendo “semplicemente” che applichi quanto indicato da Papa Francesco. In realtà penso che Papa Francesco sia stato un Papa di forte rottura rispetto alla tradizione in particolare per le posizioni che ha espresso in termini di equità sociale, di diritti, di tutela dell’ecosistema (ne ho scritto qui). Tuttavia la sua visione della Chiesa e del sacerdozio erano ben ancorati nella tradizione e ben lontani dal sacerdozio femminile e dall’apertura alle persone LGBTQ+ come auspica Paolo. Papa Francesco, nonostante l’innegabile strada di miglioramento e inclusione su cui ha portato la Chiesa, è comunque stato una figura centrale e consapevole della Chiesa-istituzione che Paolo vede e vuole distrutta e completamente rinnovata. Mi chiedo se quest’ultima parte non sia una sorta di concessione a quelle gerarchie ecclesiali che, dopo l’uscita di Visioni postcristiane, avevano punito Paolo col silenzio, impedendogli di partecipare agli incontri di presentazione del suo libro.

Segnalo infine anche il suo blog, in cui approfondisce gli aspetti trattati anche nel libro.

Paolo Cugini

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Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

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