Ho appena finito DOOM: The Dark Ages nonostante lo abbia iniziato praticamente al lancio. Incombenze lavorative e domestiche, letture e vacanze mi hanno rallentato, ma non mi hanno fermato perché DOOM: The Dark Ages è un gioco che merita di essere giocato nella sua completezza, ancor più del reboot del 2016 (ne avevo scritto qui) e di DOOM Eternal (ne avevo scritto qui). Il perché – secondo me – lo spiego qui sul blog, anche se è il primo DOOM da quando sul Manifesto si pubblicano articoli sui videogiochi di cui non tratto personalmente. Non che voglia criticare la recensione del collega e amico Andrea K. Lanza: non è quello che avrei scritto io, ma non è questo il punto. Naturalmente i gusti e le sensibilità critiche sono diverse e sarebbe stato più strano che ci si fosse trovati completamente d’accordo. Il punto è piuttosto il rimpianto per la conclusione, a livello personale, di una stagione che proprio io avevo contribuito ad aprire: quella dello sdoganamento culturale del medium videoludico al di fuori del recinto della stampa specializzata (e spesso “prezzolata”), proprio con la saga videoludica che più di ogni altra ho amato e sempre – per quanto nelle mie possibilità – contribuito a diffondere (nella linkografia i miei post sull’argomento). Tra l’altro è buffo che il ritardo che ho sempre lamentato alla redazione nella pubblicazione delle recensioni videoludiche sia addirittura aumentato quando, sul blog, posso pubblicare quando e come voglio. Ma, trattandosi di DOOM, ho preferito rimandare le valutazioni alla conclusione del gioco, nonostante essa fosse ritardata dalle incombenze ricordate. Sicuramente gli appassionati avranno già provato il gioco e le mie considerazioni saranno per loro ininfluenti (o anche irritanti). D’altra parte non saranno particolarmente interessati neppure coloro che DOOM non sanno neppure cosa sia, non avendo riferimenti per le considerazioni e forse neppure condividendo la brutale violenza all’interno dei giochi appartenenti alla serie. Per chi scrivo allora? Ovviamente oltre che per me stesso, per lasciare una traccia per quando non sarò più tra voi, nel corpo o nella mente? Magari per quei tre o quattro (forse Lanza compreso) che hanno seguito sul Manifesto e sul blog la mia passione e trovano non ininfluente (anche qualora non si trovassero d’accordo) qualche mia considerazione in merito.

Premessa: da sfegatato fan di DOOM ho sempre cercato di condividere la mia passione, in primis coi figli. Ricordo ancora con piacere (e da qualche parte ho pure foto a documentarlo) me stesso con mio figlio piccolo in braccio mentre giochiamo assieme a DOOM (1 e 2) rimasterizzato per la PS3. Proprio per questo, acquistando The Dark Ages su Steam, ho chiesto al “piccolo” (ora diciassettenne) se volesse giocarci anche lui sul mio pc utilizzando un altro slot di salvataggio. L’ha iniziato a difficoltà Ultra-Violenza. Parentesi: non ho mai giocato ad un livello di difficoltà così alto. Da giovane ho sempre utilizzato il livello standard e invecchiando (indebolendosi riflessi e mobilità articolare) devo abbassare l’indicatore sui livelli più facili e non è rarissimo che anche qui chieda un aiuto alla prole. Ma la mia tattica è sempre stata quella di un approccio prudente (pur se non stealth) e che veda la ripulitura per quanto possibile dello scenario prima dello scontro diretto. Mio figlio al contrario preferisce un approccio veloce e dinamico, schizzando e saltando di qua e di là per evitare proiettili e colpi nemici. Con The Dark Ages questo approccio non funziona. E non a caso il figlio ha ben presto abbandonato The Dark Ages per andare a rigiocarsi Eternal (che a suo tempo avevo fatto finire a lui). Sarò onesto: la cosa che mi è piaciuta di più del reboot del 2016 è stato l’editor di livelli e quella di Eternal la modalità asimmetrica del multiplayer. Ero pertanto assai timoroso ad approcciare il nuovo capitolo dell’amore della mia vita videoludica. Tanto più che da svariati commenti avevo letto la critica “non è DOOM”. È vero: non è DOOM. Ma proprio per questo è tornato ad essere – gattopardescamente – più DOOM di prima. Perché? Rubo a Lanza:

Con Doom: Dark ages quindi ci aspettavamo la solita solfa, ancora, imbellettata per PS5, PC e le due XBOX. Questo d’altronde è un prequel che sceglie una scelta fondamentalmente scellerata: rallenta quando il franchising da sempre è declinato verso la velocità. Giocare a Doom è soprattutto salire su un ottovolante di urla, grida, sangue e mostri. Pensare non è richiesto, soffermarsi vuol dire morire.

È quanto si aspettava pure mio figlio: lanciarsi in una spericolata danza di sangue e morte. E invece no: lo impedisce proprio la più vistosa innovazione del gioco, lo scudo. Lo scudo ci permette non solo di parare i proiettili nemici e di rilanciarli loro addosso quando il tempismo della parata è adeguato, ma anche di agganciare un nemico e caricarlo. Il confronto corpo a corpo è essenziale per utilizzare armi devastanti a nostra disposizione come il guanto di ferro, e le due mazze ferrate. La perdita della velocità del gameplay è compensata perciò dalla brutalità dello scontro: dovremo sempre cercare il corpo a corpo, in alcuni casi addirittura obbligatoriamente con demoni protetti da scudi che non abbassano se possono bersagliarci dalla distanza. E ancora da Lanza:

Eppure (e qui riesce il miracolo a Bethesda Softworks e id Software) questa iniziale lentezza del personaggio principale, un Doom Slayer mai così massiccio e ingombrante, riesce a creare qualcosa di mai raggiunto, e probabilmente mai ambito, da nessun titolo della serie: un’immedesimazione del giocatore verso l’anonima macchina di morte che deve muovere. Niente da strapparsi i capelli in fatto di narrazione, ma c’è più attenzione alla storia, soprattutto nei meravigliosi intermezzi, che portano il titolo ad abbracciare un’anima più dolente e intimistica rispetto ai precedenti.

È noto il giudizio di John Carmack secondo cui la storia nei videogiochi è utile quanto nei film porno, ma in qualche modo è DOOM stesso a smentire l’affermazione: è vero che in DOOM non c’è “una” storia (e dove c’è, come in DOOM 3, penalizza in modo evidente il gameplay), ma ci sono piuttosto tante storie, DOOM è un perfetto canovaccio, il marine e/o lo slayer la maschera perfetta da indossare perché ogni giocatore/giocatrice vi narri la propria storia. Non un caso che uno dei momenti iconici che chiunque abbia giocato al primo DOOM ricorda è quando la faccia pixellosa del marine, completamente tumefatta e insanguinata, si apre ad un ghigno diabolico quando riesce a recuperare la sega a motore o il BFG e a ribaltare una situazione che pareva disperata. Lo slayer di The Dark Ages è una muta macchina da guerra tenuta al guinzaglio e temuta ancor più dai suoi alleati che dai suoi nemici. Muta ma non insensibile: legata a Thira che lo guida sul campo di battaglia e al drago che gli permette di attaccare le navi volanti demoniache.

Ammettiamolo: alla fine i demoni da affrontare sono sempre gli stessi e per lo più li troviamo assembrati in ampi spazi chiusi dove ci stanno ad attendere con il demone capo che non può essere affrontato finché non abbiamo fatto strame dei suoi luogotenenti. Non sono le arene di DOOM (2016) e di DOOM Eternal solo perché i pattern di attacco dello slayer devono essere diversi considerando la sopracitata necessità di utilizzare attacchi corpo a corpo. Per questo un diversivo decisamente piacevole è andare alla ricerca di luoghi segreti che offrono vita, armatura, gadget (i pupazzetti dei demoni) oltre che risorse per acquistare gli avanzamenti per le armi a distanza e a corpo a corpo e per lo scudo, che servirà anche ad accedere ad aree altrimenti precluse. Ammettiamolo: il vedere addirittura nel gioco uno zombie (lo stesso slayer, talmente furioso per il tradimento subito, da essere incapace di morire) o uno dei grandi antichi lovecraftiani non so se trovarlo piacevole citazionismo o incosciente buttare carne basta che sia al fuoco.

Ma, nonostante i difetti, The Dark Ages è un gioco impossibile da non giocare e amare. Proprio perché, a differenza dei due giochi di cui si pone narrativamente come prequel, osa non solo presentare scenari semplicemente sbalorditivi e un motore eccezionale, ma anche spostare il gameplay per offrire quel quid di novità che ai due precedenti, fuori dal comparto grafico, mancava. In più l’introduzione dei video narrativi non interattivi permette di ritornare in contatto, di immedesimarci davvero con lo slayer, un essere potentissimo ma incatenato, costretto a seguire le direttive di mostri non meno repellenti dei demoni. E i momenti più intensi arrivano nei livelli finali – e mi siano perdonati gli spoiler – quando lo slayer (e noi che siamo la sua mente e le sua mani) viene privato degli alleati più fidati nella sua lotta non solo dal mefistofelico (e a suo modo affascinante) capo dei demoni Ahzrak, ma anche dal tradimento da parte degli alleati. L’ira e la sete di vendetta che il personaggio trasmette al giocatore (o alla giocatrice) gli (o le) permettono di superare la ripetitività degli scenari ed apprezzare piuttosto le ambientazioni stupendamente industrial-fantasy (tanto che mi aspetto – con trepidazione – qualche romanzo che, messo nelle mani giuste, potrebbe davvero essere una figata).

Trovo invece assai prescindibile il collegamento tra The Dark Ages e i precedenti due reboot: certo, in qualche modo spiega perché salti fuori lo slayer in modo necromantico nel primo e gli scenari vagamente medievaleggianti nel secondo, ma non è che ne sentissimo poi così tanto il bisogno. L’elemento decisivo è la pesantezza (e non la “lentezza” denunciata da Lanza), la massiccia brutalità di una macchina da guerra che non si ferma davanti a nulla. Non si può saltellare di qua e di là come una cavalletta ubriaca e non c’è – ancora? – una modalità multiplayer dove sfidare gli amici più o meno virtuali (e quindi ai giovani come a mio figlio piacerà meno o punto): bisogna andare in mezzo ai demoni e prenderli a mazzate, sfasciarli caricandoli con lo scudo, tramortirli e strappare loro il cuore. Disgustosamente brutale? Stupendamente DOOM!

Link nel post:

Una replica a “DOOM: The Dark Ages (impressioni)”

  1. Avatar Video/Gioco e narrazione: un rapporto possibile? – ossessioni e contaminazioni by francesco mazzetta

    […] arriviamo ad oggi scopriamo un DOOM molto diverso. Vediamo infatti come inizia DOOM: The Dark Ages (di cui ho scritto qui le mie impressioni) [da vedere almeno tutta la intro fino al titolo […]

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Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

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