
Pedagogia hacker è un testo di Davide Fant e Carlo Milano pubblicato da Eleuthera nello scorso novembre. Personalmente mi ha da subito intrigato il titolo che mette assieme la scienza dell’educazione e il concetto di “hacker” a cui comunemente viene associato un aspetto negativo. In realtà, come raccontato stupendamente da Stephen Levy in Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica nel 1984 (e nel 1994 nella prima edizione italiana a cura di Shake Edizioni Underground), il termine “hacker” non nasce con un’accezione negativa, ma al contrario come positiva soluzione di problemi che ai primi programmatori (che non avevano tool di sviluppo a disposizione) si presentavano continuamente. Il problema consisteva di solito nella necessità di compattare le istruzioni per far fare qualcosa ai computer nell’irrisoria memoria allora a disposizione.
Nel libro Fant e Milani raccontano gli “hack” realizzati all’interno delle iniziative del Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche C.I.R.C.E. con cui collaborano: laboratori di autodifesa digitale e pedagogia hacker, informatica conviviale per ragazze, ragazzi, bambini, gruppi di affinità, smanettoni e per tutti e tutte coloro che sono curiose. Sostanzialmente si tratta di aiutare soprattutto gli adolescenti, ma anche tutto il contesto che li circonda, ad un uso consapevole delle relazioni condotte anche (ma non solo) attraverso i dispositivi elettronici. In particolare mi sembrano molto interessanti due sottolineature presenti nel testo. La prima è che normalmente consideriamo gli adolescenti “assuefatti” dalle nuove tecnologie, mentre in realtà, ad un attento esame, si scopre che il relativo utilizzo provoca a loro molto più disagio rispetto agli “adulti” che ne fanno un uso maggiore anche se spesso meno consapevole. La seconda è che la gestione della comunicazione elettronica non è che un aspetto di un più ampio problema comunicativo che coinvolge le persone all’interno della loro rete di relazioni.
Molto dettagliato nel testo il laboratorio della “conferenza intergalattica”, una sorta di “gioco di ruolo” in cui ogni partecipante si deve schierare dalla parte di una delle quattro fazioni che si contendono il dominio sulla galassia: Ingegneri, Mistici, Smanettoni e Giurassici. Gli Ingegneri sono i sostenitori dell’ordine e delle regole solo il cui rispetto rigoroso può risolvere i problemi; i Mistici sono coloro che hanno un approccio fideistico nella tecnologia; gli Smanettoni sono quelli che tentano di risolvere i problemi applicando qualsiasi soluzione possibile comprese le più improbabili e infine i Giurassici sono quelli che tendenzialmente evitano di utilizzare tecnologia non strettamente necessaria. “Giocatori” e “giocatrici” sono invitati a schierarsi con una delle fazioni in base alla autovalutazione del proprio comportamento e poi a cercare punti in comune per evitare che nella galassia divampi il conflitto tra esse. Il “gioco” ovviamente serve a diventare consapevoli del proprio uso della tecnologia a fronte di altre possibili e non necessariamente contrapposte soluzioni.
In quest’ottica il libro riporta svariati esempi di “gamification” ma critica la “gamification” utilizzata all’interno del contesto scolastico, giudicandola un modo per mettere in competizione gli studenti piuttosto che per farli appassionare allo studio e alla conoscenza. Su questo aspetto specifico mi sembra possibile avanzare una duplice critica. La prima parte di questa critica è “negativa”. Non necessariamente la gamification va in direzione della competizione e non sempre la competizione allontana il focus dall’apprendimento. Intanto non esistono solo i giochi competitivi ma anche quelli collaborativi ed è sempre possibile strutturare un percorso di formazione basato appunto su una forma ludica di collaborazione. Poi non posso non ricordare come quando frequentavo la scuola media (stiamo parlando degli anni ‘70, quindi è anche giusto sottolineare come la gamification esisteva prima anche prima che diventasse una moda) il professore di applicazioni tecniche lanciava gare come quella a chi conosceva più simboli chimici e, anche proprio grazie allo studio che mi ha permesso nella mia classe di arrivare secondo nella competizione, ancora adesso mi ricordo molti degli elementi e dei simboli a loro collegati. Sempre in questo contesto, per farmi imparare le tabelline mia madre faceva la “gara delle tabelline” (una terza persona diceva una moltiplicazione a caso e vinceva chi, tra me e mia madre, diceva per primo il risultato) che poi è stato lo stesso metodo utilizzato per insegnarle ai nipoti (e ancora oggi che ha oltre novant’anni è difficile battere mia mamma…). Quindi in realtà anche l’utilizzo di modalità ludiche competitive può essere utile all’apprendimento: probabilmente dipende sempre da come l’insegnante sa presentare l’attività, se come finalizzata solo a primeggiare o piuttosto anche ed anzi principalmente ad apprendere. La seconda parte della critica è “positiva” nel senso che la critica alla gamification, più che all’ambito didattico va spostata a quello lavorativo e/o commerciale. Con la “scusa” di farci giocare le aziende ci spingono ad effettuare lavori o a concedere dati e conoscenze per cui normalmente dovremmo essere retribuiti. La gamification tende quindi a trasformarsi in una sorta di sfruttamento “soft”.
Al netto di queste osservazioni comunque il libro resta una risorsa preziosa per insegnanti ed educatori che debbano interfacciarsi con ragazzi/adolescenti e la relativa rete di relazioni, per aiutarli ad uscire da difficoltà e incomprensioni. Sul sito della casa editrice sono presenti (oltre al testo stesso in accesso aperto) approfondimenti e risorse utilissimi per vedere in pratica (e mettere in pratica) quanto descritto nel libro.
Link nel post:
- Pagina dedicata a Pedagogia hacker sul sito di Eleuthera: https://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=600
- Sito di C.I.R.C.E.: https://circex.org/it

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