Non ho resistito: vedendo disponibili su Steam tutti e tre i Max Payne non ho resistito, li ho riacquistati e li sto rigiocando. In realtà avevo già completato almeno 3 volte Max Payne (il primo, recensito a suo tempo su Sentieri Selvaggi) e due Max Payne 3 (con una recensione su Alias in occasione della prima “run” e un post sul blog in occasione della seconda). Max Payne 2: La caduta di Max Payne invece non l’ho mai finora completato (e quindi è la volta buona per farlo). Per chi non conoscesse la storia della serie Max Payne, sviluppato dalla società finlandese Remedy, è stato pubblicato da Gathering of Developers nel 2001. Nel 2003 il seguito, sempre sviluppato da Remedy, è pubblicato da Rockstar (famosa per la serie di GTA). Il terzo capitolo viene pubblicato nel 2012 sempre da Rockstar che affida lo sviluppo ad un team interno. Il primo gioco si aggiudica una valanga di premi e si stima che abbia venduto un totale di 4 milioni di copie: un risultato estremamente apprezzabile per quello che può essere considerato un gioco “indie”. Max Payne 2 si attesta invece su un numero molto minore di copie, poco più di 2 milioni stimati, nonostante da svariati appassionati sia considerato il capitolo migliore. Infine il terzo episodio raggiunge il numero di vendite del primo ma a fronte di un investimento nello sviluppo ben maggiore che rende il risultato, se non un flop, quanto meno di certo non il successo atteso. Nonostante le vendite deludenti del secondo episodio, nel 2008 esce nei cinema la versione cinematografica diretta da John Moore con Mark Wahlberg nei panni del protagonista che – da qualsiasi punto di vista la si guardi – è una vera porcata, tipo quelle che ci si sarebbe piuttosto potuti aspettare da Uwe Boll.

Per chi non sapesse nulla del videogioco diciamo che il protagonista – Max Payne, appunto – è un detective di New York che si vede massacrare la famiglia da due drogati con una nuova sostanza che sta invadendo le strade. Per potersi vendicare si fa trasferire nella DEA e si fa infiltrare nelle bande che gestiscono la malavita. Dopo essere riuscito a sgominare la banda responsabile della morte dei suoi cari, Max si ritrova di nuovo coinvolto in una guerra tra bande, stavolta al fianco di una misteriosa assassina, Mona Sax, di cui è innamorato. Alla fine di una sanguinosa cerneficina Max riuscirà ad avere ancora la meglio, ma il prezzo da pagare sarà anche questa volta la perdita di chi ama. Nel terzo episodio infine, ormai alcolizzato e fuori dalla polizia, Max viene ingaggiato come guardia del corpo da un industriale brasiliano. Perso nei fumi dell’alcol e incapace di comprendere la lingua, Max non riesce ad impedire l’assassinio dell’industriale, di sua moglie e di suo fratello, ma gli orrori a cui si trova di fronte (un’organizzazione per l’espianto e il commercio di organi) lo spingono ad iniziare una crociata personale contro la malavita organizzata di San Paolo. Il gameplay di tutti e tre è quello di sparatutto in terza persona con la possibilità di attivare l’azione al rallentatore in stile Matrix (non un caso che il primo episodio della serie cinematografica sia del 1999).

Ritorno qui in particolare sul terzo episodio dopo averlo concluso per la terza volta. Perché è un gioco che più lo gioco e più lo rigiocherei: posso anche concordare col me stesso del 2012 che sottolineava la ripetitività del gameplay, ma tutto sommato mentre lo si sta giocando questa ripetitività viene cancellata dalla storia, anzi serve proprio a tenerci incollati ad essa. Perché la storia e come viene raccontata – con i flashback per altro tipici della serie, ma che qui sono gestiti in maniera magistrale – è già a suo modo un film. Una storia noir in cui noi – esattamente come Max – non capiamo nulla di quello che ci succede attorno, in particolare non capiamo quello che gli altri si dicono (a meno ovviamente che non si sappia il brasiliano) sempre che non si degnino di farci una cortesia e parlare in inglese. Esattamente quindi come Max, il giocatore si trova in uno stato di spaesamento totale, che all’inizio è addirittura peggiorato dalle conseguenze del troppo alcol ingerito che non ci consente di distinguere ciò che guardiamo o anche solo di camminare dritti. Allo stesso tempo pian piano mentre si fa strada in Max la consapevolezza di essere solo una pedina di un gioco più grande, di non essere altro che un capro espiatorio, sale in lui la rabbia che lo trasforma e lo spinge a buttarsi a testa bassa per salvare le persone a cui comunque tiene (anche se magari lo hanno ingannato). E lo fa, consapevolmente, trasformandosi nell’ottuso gringo killer per cui è stato assunto.

Personalmente se dovessi produrre un film ispirato al videogioco chiederei allo sceneggiatore non di aggiungere ma piuttosto di asciugare, di togliere quanto è finalizzato unicamente al gameplay (le lunghe esplorazioni di ambienti pullulanti di nemici) lasciando ed evidenziando gli snodi principali della storia che da soli riescono a intessere una narrazione perfetta. E se proprio non dovesse arrivare un film… Vorrà dire che me lo rigiocherò una quarta volta!

Link nel post:

Lascia un commento

GOCCIA DI SAGGEZZA

Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

~ Watzlawick, Beavin e Jackson