Lo scorso settembre avevo scritto del documentario How Did We Find Ourselves Here? dedicato a narrare la storia dei The Dream Syndicate. Non starò qui dunque a riprendere quanto scritto là sull’importanza della band nel rock degli anni ‘80 per commentare l’appena tradotto “memoir” di Steve Wynn Non lo direi se non fosse vero. Memorie di musica, vita e Dream Syndicate pubblicato da Jimenez (uscito l’anno scorso in edizione originale). Mi sia però consentito un ricordo personale legato ai Dream Syndicate.

Da giovane scrivevo cose che assomigliavano vagamente a poesie (l’ho rifatto durante il lockdown, quindi è abbastanza evidente che tale pratica è una mia risposta più o meno inconscia a situazioni di disagio) e, alla fine degli anni ‘80, ero attivo in una associazione locale che organizzava eventi culturali come concerti, rassegne musicali e cinematografiche, reading poetici. Uno di questi reading ha visto l’unica lettura pubblica delle mie “poesie”. Anche all’epoca ero però attratto dalle “contaminazioni”, così il reading che organizzai aveva più le sembianze di una “performance”. In una stanza rettangolare lettori e lettrici (di una compagnia teatrale amatoriale) leggevano le poesie alle spalle del pubblico rivolto verso una sorta di totem alla cui sommità campeggiava una televisione. Durante la lettura delle “poesie” sulla televisione scorreva un mix video precedentemente realizzato dal sottoscritto con l’utilizzo della raffinata tecnologia consentitami da due videoregistratori. In conclusione al reading le luci nella stanza si spegnevano e partiva I Have Faith (da Ghost Stories) mentre io declamavo in italiano il ritornello:

Una promessa è facile da fare
 Un cuore è così facile da spezzare
 Ma io ho fede

A promise is easy to make
 A heart is so easy to break
 But I have faith

Buffo che il testo sia uno dei meno “caratteristici” tra quelli di Wynn per i Dream Syndicate, anche perché è stato scritto da Johnette Napolitano, delle Concrete Blonde, che all’epoca aveva una relazione con Wynn. Comunque mi consola di questa mia apparentemente insolita preferenza il fatto che anche i discografici della Enigma (l’etichetta per cui è uscito l’album) abbiano giudicato la canzone appetibile per MTV realizzando il video relativo, esteticamente molto poco nello stile della band:

Nei fatti Ghost Stories, pubblicato nel 1988, è stato l’ultimo album pubblicato dai Dream Syndicate prima dello scioglimento (senza contare ovviamente quelli post riunione dal 2017 in poi), seguito l’anno successivo da Live at Raji’s, considerato uno degli album live più belli della storia del rock.

Pensando a come presentare Non lo direi se non fosse vero mi viene da osservare in parallelo la storia dei Dream Syndicate con quella dei Sonic Youth. Per un motivo banale: di recente è uscita anche il memoir di Thurston Moore (che ho presentato lo scorso ottobre). Ma anche per un motivo sostanziale: lo stesso Wynn confronta la parabola delle due band. Entrambi i gruppi esordiscono contemporaneamente (The Days of Wine and Roses è del 1982 così come il primo EP omonimo dei Sonic Youth) ma mentre nel 1988 la parabola dei Dream Syndicate s’interrompe, quello è l’anno in cui i Sonic Youth pubblicano il loro capolavoro, Daydream Nation, grazie al quale firmano per una major. Mentre per i Sonic Youth assistiamo ad una crescita graduale e coerente, con una band stabile, per i Dream Syndicate succede esattamente l’opposto: riescono a interessare le major già con il loro primo album e infatti il secondo, Medicine Show, esce nel 1984 per la A&M. Ma il grezzo punk psichedelico delle origini viene ribaltato in un album iper-curato, con un cambio sostanziale della band (esce Kendra Smith che era stata una delle creatrici del “sound” originale dei Dream Syndicate assieme a Karl Precoda e Steve Wynn). Interessante come il nuovo stile sia criticato dai fan statunitensi ma faccia acquistare alla band una sostanziosa fan-base in Europa. Gli stravolgimenti della line-up e i ribaltamenti del sound continuano anche nei successivi Out of the Gray (1986) e Ghost Stories. Su tutto lo stesso Wynn che confessa essere stato uno dei principali fattori disgreganti col suo mantenersi nel ruolo di artista maledetto mediante un generoso uso di droga e soprattutto alcool.

E allora nel libro non manca il rimpianto e il pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se i Dream Syndicate non si fossero sciolti proprio appena prima che nascesse il grunge, con sound che sembravano essere ripresi direttamente dai loro album. A differenza però di Thrston Moore, Wynn non ha ascolti “puristi”: ascolta praticamente di tutto, a partire dal suo lavoro pre-Dream Syndicate in un negozio di dischi, e le sue canzoni sono sempre il tentativo di rifare canzoni che ha amato (in particolare i Velvet Underground). Canzoni però che, filtrate dalla sua sensibilità e da quella della band, si trasformano in opere originali in grado di influenzare generazioni di altri gruppi.

In conclusione un’autobiografia appassionante e onesta, che racconta i trionfi ma anche i problemi, e in cui Wynn non nasconde le proprie debolezze e i propri sbagli. Un’autobiografia che si ferma alla fine degli anni ‘80, accennando solamente al nuovo corso nel nuovo secolo/millennio, ma che promette un secondo capitolo. In attesa possiamo andare ad ascoltare Wynn, anche quest’anno in tour in Italia con 10 date dal 2 al 12 aprile.

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