Sono stato molto in dubbio se scrivere qualcosa a proposito di questo libro. Prima di tutto perché non è giusto fare pubblicità – anche negativa – ad un simile cumulo di sciocchezze in malafede. Secondo, non ho mai scritto, in tutta la mia carriera di scribacchino retribuito o meno di un libro che non avessi terminato. Ma il libro in questione mi è stato fatto conoscere dal “consiglio” di un autore apprezzato di cui ho scritto su questo blog (la melina nel palesare autore e titolo è voluta per non mostrarli nell’anteprima del post: se volete sapere di chi si sta parlando dovete aprirlo). Quindi lo ammetto qui subito: del libro di cui qui scriverò non sono arrivato a leggerne metà, ma quanto letto mi è bastato per interromperne la lettura e dedicarmi a cose più utili, piacevoli e/o interessanti. Nonostante che si possano contare sulle dita forse di due forse di una mano i libri che nella mia vita ho iniziato e non finito (ebbene sì: ho anche questa ossessione). Sono arrivato al punto di rinunciare a leggere il resto quando mi sono trovato di fronte a queste due affermazioni del tutto incongrue ed evidentemente ignoranti degli argomenti su cui stanno pontificando:

La tragedia, come specifico genere letterario, inizia con Omero.

e

…il mondo, come diceva Dante, è una divina commedia, c’è una vita dopo la morte in cui tutte le lacrime saranno asciugate.

La prima è una solenne stupidata perché con Omero inizia la poesia epica mentre la tragedia inizia con il culto legato a Dioniso (che Omero conosce ma da cui si distingue come spiega con dovizia di documentazione Walter F. Otto in Dioniso. Mito e cultoAdelphi, 2024). La seconda è una solenne stupidata perché la massima fatta scrivere a Dante (che non ha mai qualificato come “divina” la Commedia) arriva invece dalla Bibbia (Isaia 25,8).

Queste sono state le gocce che hanno fatto traboccare un vaso già in realtà abbondantemente colmo. Partiamo ad esempio dal capitolo filosofia. Disciplina inutile, si pontifica, che non si capisce perché sia insegnata a scuola e all’università. Peccato che in un capitolo precedente sia sia fatta una rassegna di filosofi, magnificando esclusivamente Schopenhauer e trattando invece Nietzsche in un modo che meriterebbe calci nei fondelli. Nietzsche viene dipinto come un buon diavolo che nonostante la sfiga con le donne (l’unica a cui era davvero interessato – Lou-Andreas Salomé – non gliel’ha data) si è beccato la sifilide. Leggendo l’interpretazione che si da del concetto nietzscheano di superuomo si ha nostalgia di quella nazista dato che questa va bene forse solo per i personaggi Marvel. Mentre invece di Schopenhauer viene magnificato il fatto che – nonostante fosse rimasto per tutta la vita volontariamente scapolo – avesse avuto una vita sessuale brillantemente attiva. Ah sì, poi c’è pure la sua concezione del mondo come “velo di Maya”, come illusione che gli esseri umani si – appunto – illudono di conoscere mentre l’unica forza oltre questo velo è la spinta riproduttiva. Perché, sostiene l’autore, la specie umana non differisce in nulla dalle altre specie animali e la religione (principalmente quella cristiana, ma anche quella induista/buddista, a cui pure si rifà Schopenhauer) e la filosofia hanno invece convinto gli esseri umani di essere specie speciale e privilegiata sul pianeta e nel Cosmo. Il problema non è tanto l’attacco a tale pretesa, ma il “disfattismo” privo di qualsiasi lato “construens”: va bene, non siamo – come esseri umani – una specie speciale. E allora? Rinunciamo alla tecnologia e torniamo allo stato naturale? Neanche perché, non essendo speciali, la tecnica umana non è altro che un’espressione della natura.

È anche possibile che tale parte costruttiva sia rintracciabile nella metà del libro che non ho letto, ma arrivato a questo punto ho deciso che continuare fosse una perdita di tempo (e per fortuna che ho preso in prestito il libro in biblioteca altrimenti sarebbe stato anche una perdita economica). Ma qual è dunque questo libro? Si tratta di Cani di paglia. Pensieri sull’uomo e altri animali di John Gray, pubblicato in inglese nel 2002 e in italiano nel 2003 e nel 2017 da Ponte alle Grazie e nel 2021 da Rizzoli (volontariamente non metto il link al sito dell’editore). E, qualcun* potrebbe chiedere, chi è che te l’ha consigliato? L’autore del libro del post precedente, Hans-Georg Moeller, che conclude la premessa al suo La filosofia del Daodejing con questa nota:

Dopo aver completato la versione preliminare del presente libro sono venuto a conoscenza dell’esistenza di un brillante volume che incarna una inedita prospettiva filosofica non-umanista e “neodaoista” dei nostri giorni: si tratta di John Gray, Straw Dogs: Thoughts on Humans and Other Animals, Granta, London, 2002. Raccomando vivamente questo libro a chiunque fosse interessato alla rilevanza di certe idee daoiste in ambito contemporaneo.

A questo punto delle tre l’una: o Moeller ha “sponsorizzato” il libro senza averlo letto, o l’ha letto senza averlo capito, o sono io a non aver capito il suo La filosofia del Daodejing. Perché se – come sostiene Gray – non esiste libero arbitrio inteso come capacità di intraprendere azioni che siano frutto della capacità umana di giudizio (la ragione) piuttosto che determinate da stimoli esterni e automatismi interni, a cosa serve che il saggio si prenda la briga di consigliare un sovrano che agirà comunque non in base al proprio giudizio (consigliato dal saggio) ma in base a stimoli esterni e automatismi interni? Un altro punto di contrasto estremamente evidente su una delle tematiche affrontate da Moeller che ho ripreso nel mio post è quello della pena di morte. Moeller rivendica per essa all’interno del Daodejing un ruolo eminentemente se non esclusivamente preventivo. Ma se io sono inevitabilmente portato ad infrangere la legge a nulla potrà servire il potere dissuasivo della pena capitale che avrà al contrario pieno diritto ad essere applicata per evitare che, posto nelle medesime condizioni, commetta inevitabilmente (dato che non ho né ragione né coscienza né libero arbitrio) lo stesso reato.

Alla fine, per quanto sia sostanzialmente d’accordo con la prospettiva non-umanistica moelleriana (soprattutto forse perché da lui esposta in ambito politico) penso non sia corretto il sostenere che non vi sia differenza sostanziale tra l’essere umano e le altre specie animali. E non parlo né di tecnica né di autocoscienza. Per spiegarmi ritorno a Gray. Nella sua carrellata di filosofi, dopo aver ridicolizzato Nietzsche, Gray se la prende (giustamente) con Heidegger per il suo pensiero ontologico (che è una teologia senza Dio) e per la sua connivenza col regime nazista. Ma non s’accorge di un elemento heideggeriano che confuta le sue posizioni. Gray lo dileggia dicendo che per lui “Gli animali sono sordomuti: solo attraverso gli esseri umani Dio può parlare ed essere udito”. Fuori dall’esagerazione pseudoteologica, Heidegger ha ragione: quello che distingue radicalmente gli esseri umani dalle altre specie animali, il gradino evolutivo che ci separa dagli altri nostri cugini sul pianeta, è il linguaggio. Tutte le specie animali e vegetali hanno normalmente efficienti sistemi di comunicazione, ma nessuna ha a disposizione il linguaggio. Riporto solo due riferimenti che sono utili a chiarire questa affermazione: L’alba del linguaggio. Come e perché i Sapiens hanno iniziato a parlare (Ponte alle Grazie, 2021) del fisico e linguista svedese Sverker Johansson e Quello di cui la natura non ha bisogno. Linguaggio, mente ed evoluzione (Adelphi, 2022) di Derek Bickerton. Il linguaggio è il gradino evolutivo che ha consentito all’essere umano di sviluppare i sistemi sociali e la tecnologia che l’hanno portato a dominare l’ambiente attorno a sé. Manca al linguaggio l’elemento razionale e di giudizio che ci potrebbe aiutare a non distruggerlo e a non autodistruggerci. E in questo purtroppo non siamo superiori, ma anzi molto al di sotto della maggior parte dei nostri cugini animali.

Per concludere, pensavo che il John Gray di Cani di paglia fosse lo stesso autore del bestseller che tanto mi è stato richiesto in biblioteca: Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, ma non è così. Il secondo è uno specialista statunitense di problemi di coppia mentre il primo (secondo Wikipedia) è un “filosofo” della politica inglese. Ma se lui è un filosofo, io mi vergogno di avere studiato e di continuare a studiare filosofia. Per fortuna mi consolo pensando che questo Gray, senza davvero controllare o approfondire quanto scrive, ha invece trovato il modo di spennare lettori gonzi (e non troppo intenzionati a controllare e approfondire quello che leggono) con teorie strampalate e votate esclusivamente al “clickbaiting” come le fake news dei social. L’ennesimo furbo che ha trovato il modo di fare soldi con poca fatica (e magari divertendosi pure alle spalle altrui: Moeller compreso?).

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GOCCIA DI SAGGEZZA

Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

~ Watzlawick, Beavin e Jackson