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ACCESSO VS. POSSESSO

Jacopo Franchi – social media manager per Cariplo Factory, membro del Digital Wellbeing Lab dell’Università Bicocca e socio del Movimento Etico Digitale per l’educazione alle nuove tecnologie nelle scuole primarie e superiori – ha pubblicato lo scorso giugno per la casa editrice Egea il libro L’uomo senza proprietà. Chi possiede veramente gli oggetti digitali? Franchi nel suo libro spiega – in maniera mirabilmente divulgativa – la transizione sempre più inarrestabile da una economia del possesso ad una economia dell’accesso. Lo fa prendendo in esame, in ogni capitolo, un diverso aspetto della vita quotidiana – il denaro, gli elettrodomestici, le case, le automobili, ecc. – senza tralasciare i libri e le biblioteche. Ovviamente si tratta di un tema che non solo mi interessa (il primo convegno bibliotecario a cui ho partecipato, alla fine degli anni ‘80, trattava proprio delle banche dati in rete e della perdita del possesso dei dati che tale modalità comportava, a fronte naturalmente dei vantaggi), ma che ho pure trattato a più riprese (lascio in calce al post i link ad alcuni interventi pertinenti).

Il tema pertanto della perdita di agibilità sulle cose che ci circondano non è nuovo, ma certamente diventa estremamente pervasivo e si spande su praticamente qualsiasi oggetto della vita quotidiana. Il libro di Franchi è zeppo di esempi ed estremamente documentato su come possiamo improvvisamente trovarci impossibilitati ad utilizzare l’auto che ci è stata disabilitata da remoto perché siamo in ritardo col pagamento di una rata, o del videogioco che pensavamo di avere acquistato ma a cui non possiamo più giocare perché il suo produttore ne ha chiuso i server non essendo più sufficientemente redditizio, o degli oggetti “smart” che abbiamo addosso e intorno che possono essere usati per spiarci e rivendere i dati raccolti alle società di marketing. Un quadro assolutamente inquietante a cui non sembra esserci un vero rimedio. Nonostante infatti ci siano anche leggi volte a tutelare i consumatori, fanno fatica ad essere applicate nel mercato globale da un lato e dall’altro i contratti che vengono fatti “firmare” digitalmente (quelli in gergo chiamati EULA: End User License Agreement) hanno forza vincolante anche se praticamente nessun* li legge tanto sono lunghi e complessi.

 

LIBRI E BIBLIOTECHE

Avvertenza: L’uomo senza proprietà è un testo divulgativo che non pretende di approfondire ogni singolo argomento trattato. Pertanto immagino che, come ci sono aspetti legati alla digitalizzazione dei libri che non sono perfettamente a fuoco nella loro complessità, anche gli altri argomenti siano trattati in maniera introduttiva lasciando a lettrici e lettori il compito di approfondirli, anche ricorrendo all’ampia bibliografia riportata. Mi sia consentito qui pertanto un piccolo approfondimento sulla questione ebook e biblioteche (dato che si tratta della mia “fetta di torta”).

Sicuramente il discorso dell’accesso è un problema: quando acquisto un ebook sul mio dispositivo in realtà non acquisto un bene ma piuttosto un servizio di accesso che può essere revocato dal fornitore. Ci sono casi in cui (per motivi vari che non sto qui ad approfondire) questa revoca è effettivamente avvenuta e il fornitore ha cancellato l’ebook da remoto dai dispositivi dei clienti. E questo è indubbiamente brutto ma, se detti utenti avessero letto il contratto di funzionamento del dispositivo, non se ne sarebbero meravigliati. Un po’ più spinoso diventa il problema se l’utente è la biblioteca. Non tanto come pensa (ingenuamente) Franchi perché tutte le biblioteche debbano avere anche la funzione di archivio (e quindi conservare tutti i libri che acquistano): le biblioteche pubbliche devono costantemente revisionare le raccolte eliminando da esse i testi scorretti, mediocri, superati o inappropriati (ovviamente non includo la “u” dell’acronimo SMUSI perché un ebook non si può “usurare”), anche se essi sono in formato digitale. Il problema della conservazione in questo caso ricade piuttosto sulle biblioteche nazionali centrali e su quelle individuate a livello regionale e provinciale per raccogliere e conservare le pubblicazioni. Giova ricordare che non sempre l’edizione cartacea corrisponde esattamente a quella elettronica, e non si tratta solo di ISBN diversi: in alcuni casi la versione elettronica non contiene le illustrazioni o, se le contiene, sono in bianco e nero piuttosto che a colori. In compenso normalmente la versione elettronica ha i link delle URL attivi in modo che sia possibile collegarsi direttamente al sito citato. In sostanza ci sono casi in cui la versione cartacea e quella elettronica della stessa opera dovrebbero trattarsi come due edizioni distinte. Oltre a ciò ci sono le edizioni native digitali, tra cui opere in self-publishing che non hanno un corrispettivo cartaceo o lo hanno solamente in modalità print-on-demand. A prescindere da quale sia la loro origine, le edizioni digitali dovrebbero essere conservate e rese disponibili esattamente alla pari delle edizioni cartacee. Ma il problema poi diventa “come”. La messa a disposizione di biblioteche digitali “locali” ha aspetti che agli utenti risultano (giustamente) assurdi: perché una risorsa disponibile sul web deve essere limitata a iscritte e iscritti di una limitata area geografica? La risposta è: perché sono cittadine e cittadini di quella determinata area geografica a rendere disponibili con le loro risorse prelevate fiscalmente quel determinato servizio di biblioteca digitale. Il che è sensato ma significa riprodurre confini e diseguaglianze del mondo analogico nel mondo digitale teoricamente senza confini (anche se la stessa cosa succede anche su potenze economiche molto maggiori come – ad esempio – Amazon: a seconda del paese a cui si accede alla piattaforma si possono vedere alcuni prodotti e non altri a causa delle leggi locali e dei contratti stipulati coi fornitori) e qualsiasi navigante tenterà di superarli, anche solo per principio. Questo ovviamente vale per le risorse acquistate e messe a disposizione per il proprio pubblico dalle singole biblioteche o dai singoli sistemi bibliotecari, ma relativamente invece alle risorse digitali che dovrebbero essere acquisite dalle biblioteche preposte? In realtà il Decreto del Presidente della Repubblica del 3 maggio 2006, n.252 Regolamento recante norme in materia di deposito legale dei documenti di interesse culturale destinati all’uso pubblico attuativo della Legge 15 aprile 2004, n. 106 Norme relative al deposito legale dei documenti di interesse culturale destinati all’uso pubblico prevede che (Art. 38) la

Accessibilita’ dei documenti diffusi tramite rete informatica

1. I documenti depositati e raccolti che siano in origine accessibili liberamente in rete possono essere resi accessibili per via telematica nel rispetto delle norme sul diritto d’autore e sui diritti connessi.

2. I documenti depositati e raccolti che siano in origine accessibili a determinate condizioni, quali licenze o altri contratti attributivi del diritto all’accesso e all’utilizzazione del documento, possono essere resi disponibili esclusivamente a utenti registrati che accedono da postazioni situate all’interno degli istituti depositari, nel rispetto delle norme sul diritto d’autore e sui diritti connessi.

Chiaramente tale indicazione è penalizzante soprattutto se si pensa che l’oggetto digitale in rete non è (non dovrebbe essere) limitato ad un luogo fisico. Una alternativa fino al recente passato è stata Archive.org che dal 2020 ha iniziato a mettere a disposizione, tramite il sotto-portale Openlibrary versioni digitali di libri acquistati o donati ad essa in versione “one user one copy” (cioè solo un utente alla volta può avere in prestito la versione digitale di quel libro esattamente come avviene per la versione analogica di esso) per gli utenti registrati. Apriti cielo: i grossi colossi editoriali statunitensi hanno fatto causa alla organizzazione senza scopo di lucro imponendole a forza di sentenze di ritirare dalla disponibilità tutti i libri da loro pubblicati (di cui comunque Archive.org possedeva legalmente la copia fisica). In realtà, come riportato da Sara Dinotola nel suo recente Le collezioni nell’ecosistema del libro e della lettura (Bibliografica, 2023), studi dimostrano che i prestiti bibliotecari non “rubano” vendite di libri ma piuttosto le incentivano. E l’iniziativa di Archive.org aveva (ed ha) l’essenziale proposito di preservare le opere digitali (che altrimenti rischiano di scomparire se lasciate al mero interesse economico degli editori, come perfettamente sottolinea Franchi). Analoga iniziativa legislativa a livello di Unione Europea è quella relativa alla salvaguardia dei videogiochi, una volta che diventino non più remunerativi per i rispettivi editori. L’iniziativa si trova qui ed è possibile – in qualità di cittadine e cittadini dell’Unione Europea – firmarla fino al 31/07/2025. Proprio l’iniziativa di Archive.org suggerisce una modalità maggiormente “user friendly” per la messa a disposizione dei testi digitali ricevuti dalle biblioteche tramite il deposito legale: la creazione di una piattaforma di consultazione per essi a cui accedere tramite il catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale. Si noti che ho scritto – consapevolmente – “consultazione” e non “prestito”: in questo modo, pur raggiungendo il documento da qualsiasi luogo, ci sarebbe comunque un disagio aggiunto, unito alla necessità dell’iscrizione, rispetto alle disponibilità dell’“acquisto” (cioè dell’acquisto dell’accesso al) documento digitale (o al suo corrispettivo analogico). Questa soluzione andrebbe anche perfettamente in direzione della digitalizzazione dei beni culturali sempre più spinta e finanziata anche tramite i fondi PNRR e del resto è già in parte attuata perché dall’OPAC è possibile visualizzare liberamente, per alcuni testi, copertina, indice, introduzione o prima pagine (evidentemente scansionate da cartaceo). E questo è ottimo per una risorsa ad accesso libero ma, vista la possibilità di autenticazione che offre il portale, perché non mettere a disposizione degli utenti registrati (tramite SPID/CIE/CNS per evitare abusi) i documenti digitali ricevuti (o che devono essere ricevuti) per deposito legale?

 

I SOLDI DELLE UNIVERSITÀ

Oltre a queste problematiche che riguardano il pubblico “generico”, ce n’è un’altra che riguarda “solo” quello universitario, ma non meno rilevante: le riviste scientifiche che normalmente ospitano articoli e saggi frutto della ricerca universitaria sono ormai disponibili solo online con costi crescenti e spesso esorbitanti col paradosso che la comunità li paga due volte (la prima per finanziare la ricerca che produce articoli e saggi, la seconda per dare la possibilità alle università di mettere a disposizione quegli stessi articoli e saggi ospitati nelle riviste). Ma oltre al danno la beffa: qualora una determinata facoltà non riusca più a far fronte ai costi è costretta a rinunciare non solo ai nuovi numeri usciti dopo l’eventuale non rinnovo, ma anche a tutti i numeri complessivamente (compresi quindi anche quelli per cui ha regolarmente pagato): perde in sostanza completamente l’accesso alla rivista. Si tratta evidentemente di una stortura a cui occorre porre rimedio possibilmente senza esautorare gli editori, ma impedendo assolutamente che le università non possano accedere a quella stessa conoscenza che esse producono.

 

HACKING THE SPY

Per quanto riguarda il tema dello spionaggio a cui (potenzialmente) siamo tutti soggetti da parte degli oggetti “smart” di cui ci circondiamo, rimando alla lettura dell’ultimo libro di Kevin Mitnick, già l’hacker più ricercato al mondo (col nickname Condor) e poi (dopo diversi anni di prigione) consulente aziendale per la sicurezza informatica: L’arte dell’invisibilità (ne ho scritto qui). Nel suo libro Mitnick – oltre a mostrare le strategie per rimanere invisibili in rete dagli occhi delle istituzioni e dei malintenzionati – spiega perché dobbiamo preoccuparci di tutelare la nostra privacy e mettere in atto almeno le misure minime per impedire che qualsiasi informazione su di noi possa essere a disposizione degli interessati. Il problema è che le tecniche anti-spionaggio da mettere in pratica spesso comportano non solo rinunce di comodità o di servizi, ma attenzione espressa in tempo e denaro. Per questo la privacy è e sarà sempre più il nuovo lusso da sfoggiare.

 

COSA VENDE GOOGLE?

In conclusione a rimedio di questo scenario non sembrano essere le leggi: anche quando ci sono si tratta di un ambito in cui è difficile farle applicare (ad esempio le biblioteche sono spinte a cancellare i prestiti passati degli utenti per tutelare la loro privacy mentre quegli stessi utenti concedono spesso senza pensarci due volte alle app che scaricano autorizzazioni sulla geolocalizzazione, sul microfono, sulla telecamera, sulla gestione delle chiamate, ecc.). Non ha più molto senso oggi neppure rinunciare a quello che la tecnologia ci offre: ad esempio rinunciando all’uso del denaro elettronico è vero che diventa più difficile tracciare i nostri acquisti ma è vero anche che apriamo lo spazio per chi non vuole il tracciamento della propria situazione finanziaria per sfuggire al fisco. Forse, anche pensando alle raccomandazioni di Mitnick, l’unica strada percorribile è quella di rendere le persone consapevoli del valore della privacy, del valore del controllo su ciò che ci sta intorno. Se acquisto un libro su un Kindle lo faccio per il valore d’uso non perché lo voglio come oggetto. Se lo voglio in quanto tale lo acquisto in forma analogica (così posso anche metterlo in bella vista nella libreria). Se mi interessa ascoltare musica mentre leggo o scrivo, qualsiasi servizio di streaming mi può andar bene, se invece voglio avere la musica del mio musicista preferito acquisto le sue opere in vinile/CD o su servizi come Bandcamp che permettono di scaricarsi gli album acquistati senza ulteriore controllo sui file da parte della piattaforma. Se una app o un servizio mi vengono offerti gratis devo essere consapevole che in realtà sono io – grazie a come uso la app o il servizio e ai dati che essi raccolgono – che vengo venduto ad altri dalla ditta sviluppatrice. Ne ho scritto un post nel 2018 presentando il libro Algorithms of Oppression: How Search Engines Reinforce Racism di Safiya Umoja Noble (NYU Press, 2018). Riporto qui un passo illuminante dell’autrice:

…Google’s commodities are not its services such as Gmail or YouTube; its commodities are all of the content creators on the web whom Google indexes (the prosumer commodity) and users of their services who are exposed to advertising (audience commodity). We are the product that Google sells to advertisers.

[Le merci di Google non sono i suoi servizi come Gmail o YouTube; le sue merci sono tutti i creatori di contenuti sul web che Google indicizza (merce prosumer) e gli utenti dei loro servizi che sono esposti alla pubblicità (merce pubblico). Noi siamo il prodotto che Google vende agli inserzionisti.]

Non è necessariamente negativo essere il prodotto: siamo sempre il “prodotto” andando a lavorare, il “prodotto” che vendiamo al datore di lavoro è la nostra forza fisica e intellettuale, il nostro tempo. Ma è fondamentale saperlo per poter vendere il nostro essere prodotto al giusto prezzo. E di questa presa di consapevolezza il libro di Jacopo Franchi è strumento sicuramente fondamentale, soprattutto utilizzato come “pars destruens”, come osservazione di tutti i rischi e le storture del “brave new world” digitale in cui tutte e tutti siamo sempre più immerse/i. Occorre diffondere in misura sempre maggiore questa consapevolezza oltre che elaborare una efficace “pars construens” che ci permetta una vera cittadinanza in questo nuovo mondo.

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Link nel post:

Una replica a “Espropriati nel meraviglioso mondo digitale”

  1. Avatar Libri letti nel 2024 – ossessioni e contaminazioni by francesco mazzetta

    […] Jacopo Franchi L’uomo senza proprietà. Chi possiede veramente gli oggetti digitali? (EGEA, 2024) […]

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GOCCIA DI SAGGEZZA

Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

~ Watzlawick, Beavin e Jackson