The-Dream-Syndicate-How-Did-We-Find-Ourselves-Here

La musica degli anni ‘80 fa cagare. Questa la frase standard che potreste sentire da un/a appassionato/a di “rock”. Questo perché negli anni ‘80, con la nascita di MTV (e si sa che Video Killed The Radio Star), si divarica nettamente la produzione “leggera”: da una parte quella studiata per scalare le classifiche con riff accattivanti e look in grado di fare tendenza, dall’altra quella più o meno consapevolmente erede controculturale del punk. La musica degli anni ‘80 pertanto a livello di immaginario comune è stata quella dei Duran Duran, degli Spandau Ballet, dei Queen, di Madonna, di Michael Jackson, di Olivia Newton-John, dei Soft Cell, dei Chicago, dei Culture Club, di Prince, degli Yes, di Phil Collins, di George Michael, degli A-Ha, ecc. Poi ci sono altri artisti che senza raggiungere le vette delle classifiche (o raggiungendole molto più raramente: penso – ovviamente? – a Bruce Springsteen) hanno significato molto di più per la musica piuttosto che per il costume. Il sostenere quindi che gli anni ‘80 siano stati un grande decennio per la musica (rock) mi ha fatto discutere animatamente con più di un/a appassionato/a (una di queste una collega bibliotecaria che, alla fine, si è stufata e mi ha bloccato). Ma se andiamo a vedere quali gruppi sono stati attivi negli anni ‘80, non penso sia possibile contestare il mio giudizio. Oltre infatti al già citato Bruce Sprinsgsteen, abbiamo: AC/DC, U2 (fenomeno non ancora planetario: Achtung Baby arriverà solo nel ‘91), Dire Straits, John Mellencamp, Guns’n’Roses, Iron Maiden, Motörhead, Metallica, R.E.M., Pixies, Jane’s Addition, Red Hot Chili Peppers, Hüsker Dü, Dinosaur Jr., Sonic Youth, Tom Petty, Suzanne Vega, Tom Waits, ecc. Un’isola “indie” molto particolare e caratterizzata è stata quella del Paisley Underground con gruppi attivi nell’area di Los Angeles come Green on Red, The Long Ryders, Thin White Rope, Rain Parade, Bangles (che fu il gruppo che più di tutti quelli del Paisley Underground riuscì a scalare le classifiche col singolo Walk Like an Egyptian), ma sicuramente il più importante e influente fu quello dei The Dream Syndicate.

A raccontarne la storia arriva ora il documentario How Did We Find Ourselves Here? scritto, prodotto e diretto dal fan olandese Emiel Spoedler che ha raccolto interviste coi membri del gruppo nelle sue varie formazioni (tranne Karl Precoda, il primo chitarrista del gruppo): Steve Wynn, Dennis Duck, Kendra Smith, Mark Walton, Paul Cutler, ad altri musicisti, produttori, proprietari di locali attivi sulla stessa scena musicale e giornalisti e critici musicali. Le interviste sono corredate di fotografie e video d’archivio che raccontano la storia del gruppo. In particolare quella di Steve Wynn e di come a vent’anni si sia trovato nella seguente condizione:

We were all so tired of this nervous, hyper formulated music that was going on. We just wanted to get lost in sound and repetition.

Eravamo tutti così stanchi di questa musica nervosa e iper formulata che veniva prodotta. Volevamo solo perderci nel suono e nella ripetizione.

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E l’embrione dei Dream Syndicate sono Wynn, Precoda e Smith nella cantina del primo che passano il pomeriggio con una jam su un solo accordo che poi diventerà That’s What You Always Say. Bellissima anche la storia di come riescono a coinvolgere Dennis Duck, già batterista di una band di successo, gli Human Hands, che viene controvoglia costretto da Wynn ad un’ora e mezza di strada attraverso un tremendo temporale per raggiungerli nella sua cantina per suonare con loro. Duck si porta un registratore e tre giorni dopo, quando Wynn lo richiama per ringraziarlo e chiedergli un parere, gli risponde che per tutto il tempo non ha fatto altro che riascoltare la registrazione. Duck dichiara che all’epoca era interessato al “kraut rock” e quello di Wynn & Co. ci si avvicinava ma unendo elementi di Velvet Underground, Creedence Clearwater Revival e jazz, il tutto sommerso da tonnellate di distorsioni. Da lì inizia una storia decennale di album che magari non hanno scalato le classifiche ma, ben più di altri ascoltati da tutti e poi dimenticati, restano nell’immaginario musicale non solo di chi li ha ascoltati, ma nella musica stessa, e non solo “indie”: The Days of Wine and Roses (1982), Medicine Show (1984), Out Of The Gray (1986), Ghost Stories (1988), a cui occorre aggiungere uno dei più bei album live della storia del rock: Live at Raji’s (1989). A quel punto il gruppo si sciolse e in particolare Wynn continuò una soddisfacente carriera solista, con una attenzione e una fanbase soprattutto in Europa. Proprio anche grazie alle insistenti richieste dei fan nel 2012 i Dream Syndicate si sono riuniti prima per un tour e poi per pubblicare nuovi album: ad oggi altri quattro (How Did I Find Myself Here?, 2017; These Times, 2019; The Universe Inside, 2020 e Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions, 2022) dove, nonostante il sound caratteristico non sia fondamentalmente cambiato, si nota prepotente la voglia di sperimentare.

Il documentario, interessante ed estremamente godibile, è inserito come “bonus disc” nel CD Live Through The Past, Darkly (Label 51, 2024). Il CD viene presentato come “colonna sonora” del documentario e contiene un “best of” delle canzoni dei Dream Syndicate in versioni live fino ad ora inedite. Inoltre, bonus nel bonus, il DVD contiene la registrazione di un concerto dei Dream Syndicate al The Roxy del 1984. Il tutto al costo di un normale CD: un “must have” assoluto!

Trailer di How Did We Find Ourselves Here?

qualche live dei “primi” Dream Syndicate

The_Dream_Syndicate_Press_Photo_by_Chris_Sikich

POST SCRIPTUM: il 30 agosto è uscito il nuovo album solista di Steve Winn (a 14 anni dal precedente Northern Aggression): Make It Right (Fire Records).

Link nel post:

Una replica a “Lost in sound and repetition: The Dream Syndicate”

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