
Ho già raccontato (nel recente post sulla raccolta di poesie di Emily Dickinson) delle mio proposte poetiche a bambine e bambini di quinta primaria (elementare) all’interno delle iniziative per le scuole organizzate dalla Biblioteca di Fiorenzuola. Ho già là descritto come una delle poesie (spesso) centrali dell’incontro era This was a poet (Questo fu un poeta) della Dickinson, che si andava a rispecchiare-richiamare nella poesia Qualcuno mi ha detto di Patrizia Cavalli, che oggi apre la raccolta appena pubblicata a cura di Emanuele Dattilo: Il mio felice niente. 1974-2020 (Einaudi):
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
La discussione che si sviluppava nella classe era volta a riflettere sulla essenziale non-utilità della poesia (e dell’arte in genere). Una “non utilità” contraddittoria perché se non serve alla fin fine per guadagnare denaro come invece fanno le conoscenze “utili” che possiamo “scambiare” e mettere a disposizione in cambio di un tornaconto, è in realtà ancor più necessaria perché ci definisce in quanto esseri umani.
La lettura della antologia Einaudi, che onora la scomparsa della poetessa avvenuta nel 2022, ha ancor più approfondito questo punto di vista. In particolare, oltre alla sua lettura, è stata estremamente interessante la visione del documentario del 2023 di Francesco Piccolo e Annalena Benini Le mie poesie non cambieranno il mondo disponibile su RaiPlay. In particolare mi ha fatto riflettere la risposta della poetessa ad una domanda del pubblico durante un “reading”:
– Quanto c’è di autobiografico nelle tue poesie?
– Tutto e niente. Tutto ma niente, nel senso che le cose non esistono finché non hanno trovato una forma linguistica. Quindi che una cosa sia avvenuta o non sia avvenuta non vuol dire niente. Finché linguisticamente non è avvenuta, non è avvenuta.
Già nelle mie letture (e post relativi) sull’origine del linguaggio ho più volte segnalato come gli studiosi siano propensi a ritenere il nostro modello di realtà un modello “soggettivo”, un modo in cui la mente interpreta e ricostruisce la realtà. Un modo molto diverso da quello degli altri animali e la differenza sta proprio nell’uso del linguaggio che trasforma le percezioni in simboli. Per questo la risposta di Cavalli (della Cavalli anziana) apparentemente contraddice l’assunto della poesia della Cavalli giovane: le poesie non solo cambiano il mondo – col loro creare forme linguistiche per nuove forme emotive di stare nel mondo -, il mondo, linguisticamente – e quindi effettivamente per l’essere umano – lo creano. Ma la poesia è – e non avevo sbagliato nel mio ingenuo accostamento – da leggere alla luce del ritratto che fa del poeta la Dickinson: il talento della poesia è una ricchezza inconsapevole (ed anzi, spesso una maledizione) per il poeta. E, alla luce di ciò, sono illuminanti alcuni passi introduttivi del curatore:
Ciò che è reale ha bisogno della finzione, la quale non è altro che un sovrappiù di realtà capace di donare a ogni cosa, perfino alle più crudeli o luttuose, tutta la propria intensità e leggerezza originaria. […] La Realtà, per essere riconosciuta nel suo splendore, ha bisogno dell’apparenza.
[…]
Essere poeta vuol dire, per Patrizia, essere ostaggio di un sistema nervoso fragilissimo e impressionabile, aperto anzi spalancato in ogni direzione, senza predilezioni di oggetti, in grado di parlare per ogni cosa che cada sotto al suo sguardo.
Leggere le poesie della Cavalli è immergersi in un mondo contemporaneamente angusto e universale. Angusto perché viene esposta la sua realtà brutalmente quotidiana. Universale perché questa percezione del minimo particolare diventa la capacità (sempre ricorrendo a Dickinson) di riconoscervi le “essenze” universali che spiegano il mondo.
Leggiamo qualche altra poesia.
Ma per favore con leggerezza
raccontami ogni cosa
anche la tua tristezza.
A bambine e bambini stupiti di cosa ci potesse essere di poetico in questa apparentemente banale esortazione (che era la seconda poesia della Cavalli introdotta in quelle da leggere assieme) facevo riflettere su come normalmente associamo la tristezza alla pesantezza (ed il nostro corpo si adegua assumendo una posizione piegata, gli occhi bassi verso il terreno) mentre alla gioia viene associata la sensazione di leggerezza, di assenza di peso. Ecco dunque il paradosso nell’esortazione poetica: non lasciarti abbattere dal peso della tristezza ma ogni cosa raccontala con la leggerezza della gioia.
Per distrarsi dal tempo bisogna avere molte occupazioni,
obblighi, scadenze, conti da pagare e rimandare
rimandare l’attuazione, finché tutto finisce
e tutto scade naturalmente inevitabilmente.
Restano fogli di carta spiegazzati, guardati
mille volte e poi buttati. Sembra uno scherzo
ma passano gli anni e accompagnati da questa sensazione
di avere qualcosa da fare, molto importante,
molto urgente, si resta sempre
in un eterno l’altro ieri.
Qui ovviamente è interessante osservare come viene descritto il tempo ossessionato dalle scadenze, ma è altresì interessante il modello di ritmo sincopato espresso dalla Cavalli a questa e alle altre sue poesie, utilizzando la rima non (solo) alla fine della strofa ma al suo interno e lo stesso dicasi per il senso della frase che va ricostruito e pone tale sfida al lettore.
Essere testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.
E questa poesia non può non fare andare la mente a coloro che vengono definiti “leoni da tastiera” perché in maniera inconsapevole si esprimono senza curarsi delle conseguenze e in qualche modo la poetessa ne prova invidia perché invece l’osservarsi, il controllarsi, l’auto-descriversi è una grande prova, una fatica che ci lascia affranti.
Com’era dolce ieri immaginarmi albero!
Mi ero quasi in un punto radicata
e lì crescevo in lentezza sovrana.
Io ricevevo brezza e tramontana,
carezze o scuotimenti, che importava?
Non ero io a me stessa gioia né tormento,
io non potevo togliermi dal mio centro,
io senza decisioni o movimento,
se mi muovevo era per il vento.
Come in quella precedente in questa poesia è protagonista il rammarico di doversi far carico di decisioni, di “movimenti” autonomi e responsabili e la nostalgia per un’esistenza priva di queste necessità che si bea nel suo essere radicata al centro senza nessuna necessità di muoversi e, se tale movimento accade, è comunque dovuto a cause esterne.
E adesso tutti mi chiamano signora.
Certo sarebbe peggio signorina.
Divertentissima descrizione poetica dell’avanzare dell’età e del riflesso che tale avanzamento ha sulla rappresentazione sociale di noi stessi (ove ovviamente “signorina” diventa un modo ipocritamente educato per non dire “zitella”).
Un gatto che dorme il pomeriggio
nel larghissimo letto padronale
in un punto qualunque, però comodo,
che si sveglia in un’ora qualunque
perché qualcuno passa e lo carezza,
non si sveglia del tutto né si chiede
chi è che lo carezza, ma si sporge
dal sonno solo un po’
per stirarsi in arrendevole lunghezza
perché duri di più quella carezza.
Forse così potrebbe essere l’amore.
Apparentemente qui abbiamo una semplice (seppur bellissima) descrizione di un gatto che dorme fino a quando non lo si carezza (e comunque si noti anche qui la costruzione sincopata delle frasi: chi è che lo carezza, ma si sporge / dal sonno solo un po’…). Eppure l’ultima strofa ci lascia fermi sul ciglio del baratro della riflessione su cosa sia l’amore. L’amore che straccia le vesti o piuttosto un più quieto lasciarsi accarezzare, non importa neppure da chi?
Ero in pace ed eccomi dannata
al sospetto che forse sono amata.
Anche qui il soggetto (non a caso nell’ultima strofa) è l’amore che fa rima con dannazione piuttosto che con piacere o con estasi. L’amore come attenzione che ci disturba dal nostro essere albero immobile, che ci costringe a muoverci e a rispondere – con l’affermazione o col rifiuto – e a metterci in gioco col rischio di poter perdere.
Sarebbe sopportabile ogni male
se non ci fosse l’interpretazione,
sarebbe quel che è, non quel pugnale
che uccide e vuole pure aver ragione.
E con l’ultima poesia della raccolta (mentre Qualcuno mi ha detto era la prima) chiudo il libro e la presentazione con la maledizione scagliata dalla poetessa su di me e su chi come me non ha il dono/tormento della poesia e per questo cerca di consolarsi leggendo e “interpretando” la poesia altrui senza – semplicemente – lasciarla essere per “quel che è”.

Link nel post:
il post su Le più belle poesie di Emily Dickinson: https://ossessionicontaminazioni.com/2024/08/06/un-gioiellino-mancato-le-poesie-di-emily-dickinson-selezionate-da-vivian-lamarque/
pagina dedicata a Il mio felice niente sul sito Einaudi: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/poesia-e-teatro/poesia/il-mio-felice-niente-patrizia-cavalli-9788806264819/
il documentario Le mie poesie non cambieranno il mondo su RaiPlay: https://www.raiplay.it/programmi/lemiepoesienoncambierannoilmondo

Lascia un commento