
Il mese scorso è arrivato su Netflix il nuovo film “live action” dedicato a City Hunter.
Ricordo che City Hunter nasce come manga creato da Tsukasa Hōjō (autore di un altro anime famoso in Italia, quello di Occhi di Gatto) e pubblicato negli anni dal 1985 al 1991. Per certi versi possiamo paragonare City Hunter a Lamù (la cui pubblicazione originale è antecedente a quella del primo): in entrambi abbiamo un protagonista maschile donnaiolo e sporcaccione che insegue tutte le gonne che gli capitano a tiro, ma in entrambi i casi viene violentemente messo in riga da una donna che vive con lui e di cui lui, nonostante le tendenze fedifraghe, è comunque intensamente innamorato. Quello che cambia in City Hunter rispetto a Lamù è che mentre quest’ultimo è una storia che parla di adolescenti, il primo è un violento hard boiled in cui il protagonista Ryo Saeba, pur condividendo la passione per la caccia alle gonne di Ataru Moroboshi – protagonista maschile di Lamù – non è assolutamente uno sfigato e incapace, ma piuttosto è una macchina da guerra perfettamente oliata in grado di abbattere i nemici sia a mani nude sia con le armi. Con queste ultime inoltre si rivela di una precisione mostruosa, in particolare col suo fidato revolver Colt Python calibro 357 Magnum con canna da 8 pollici, all’occorrenza caricato di proiettili blindati per perforare anche le armature. City Hunter – manga e anime – si dimostra così un irresistibile mix di comicità (in particolare il tormentone in cui la sua assistente Kaori Makimura, disgustata dalle sue “avance” eccessive nei confronti delle clienti, lo colpisce con un enorme martello) e di azione poliziesca in cui Ryo deve sfoderare non solo le doti di combattimento ma anche quello di perspicace investigatore, più volte convinto dalla seducente detective Saeko Nogami ad aiutare la polizia con la promessa (mai mantenuta) di concessioni sessuali.
Il manga è tuttora disponibile in Italia grazie a Panini Comics, ma qui vorrei parlare piuttosto del nuovo film live action prodotto da Netflix, anche in confronto al precedente, uscito nel 1993. E cominciamo proprio da questo: diretto da Wong Jing e prodotto da Golden Harvest, vede Jackie Chan nei panni di Ryo che, inseguendo la figlia fuggitiva di un industriale, deve sbrogliare l’attacco di un gruppo di terroristi ad una nave da crociera per ottenerne il riscatto. Jackie Chan mette tutta la sua simpatica gigioneria a disposizione del personaggio e la sceneggiatura offre momenti a loro modo deliziosi come quando Jackie/Ryo e il suo antagonista vengono “infettati” dai cabinati della sala giochi della nave e si trasformano in personaggi di Street Fighter con le rispettive mosse. E se il biondo protagonista si trasforma in Ken, Ryo (per la legge del contrappasso?) nell’aggraziata Chun-Li. Ma questo ed altri siparietti non bastano a rendere accettabile il film ai fan del manga e dell’anime. Sostanzialmente il plot è identico a quello di tanti dei film di Jackie Chan: il personaggio che impersona dapprima viene pestato e solo in seguito trova il coraggio e la forza di riscattarsi. Così dobbiamo vedere Jackie Chan/Ryo che durante una sparatoria sparacchia a caso senza centrare nessun bersaglio: cosa assolutamente inverosimile nel manga e nell’anime. Inoltre Jackie Chan sembra “troppo vecchio” (nel 1993 ha 39 anni) e non è fisicamente attraente (mentre invece Ryo sfrutta il suo fisico e il suo aspetto per attrarre le ragazze).
Da questo punto di vista va molto meglio con nuovo adattamento Netflix, diretto da Yuichi Sato, dove Ryo è impersonato da Ryohei Suzuki (che paradossalmente sembra più giovane nonostante abbia 41 anni e che quindi è più anziano di Jackie Chan quando ha girato la sua versione: meraviglie del trucco e del ciuffo che copre eventuali rughe sulla fronte?) con un “physique du role” decisamente nella parte. La trama è una sorta di adattamento sintetico di quella del film d’animazione del 2019: City Hunter: Private Eyes. Qui avevamo una modella che l’azienda stessa per cui lavorava voleva rapire in quanto custode della chiave segreta ideata dal padre per attivare micidiali droni bellici. Nel City Hunter di quest’anno abbiamo invece la caccia ad una “idol” che vorrebbe diventare la modella per una linea di prodotti cosmetici la cui azienda produttrice è però il paravento di una misteriosa società che mira a produrre supersoldati con potenziamenti genetici di cui la idol è l’unico prototipo riuscito. Rispetto a Private Eyes abbiamo una compressione della trama ed una esclusione di personaggi secondari, in particolare Falcon ma, in compenso, l’inclusione dell’inizio della relazione tra Ryo e Kaori dopo che il fratello di lei, originario partner di Ryo, viene ucciso da uno dei killer geneticamente potenziati chiedendo a Ryo come ultime volontà di proteggere la sorella. Da qui la nascita delle gag relative al tentativo di scoraggiare le tendenze da donnaiolo di Ryo da parte di Kaori. Viene anche ripresa da Private Eyes tutta la scena nello strip bar maschile dove Ryo fa un balletto nudo solo che la spettatrice non è la modella protetta ma Kaori (che Ryo tenta di far desistere dal seguirlo).
Tutta la parte relativa ai combattimenti è stupenda e assolutamente in linea con manga e anime tanto che – avendoli rivisti entrambi di seguito – tendo addirittura a confondere le scene. Non posso quindi che consigliare la visione di entrambi sia ai “vecchi” appassionati di City Hunter sia a chi si accosti per la prima volta alla saga e sia disposto ad innamorarsene.



Lascia un commento