Presento qui due testi video/ludici non collegati, ma che mi è capitato di leggere in sequenza, senza poter presentare singolarmente: Giocare è un’arte. Il gioco come tecnologia trasformativa di C. Thi Nguyen (ADD) e UDO. Guida ai videogiochi nell’Antropocene di Matteo Lupetti (SIDO). Anche se Lupetti dimostra di conoscere il testo di Thi Nguyen (l’inverso non è possibile anche semplicemente perché Giocare è un’arte è uscito in edizione originale nel 2020), in realtà non è possibile affermare che i due testi siano in qualche modo collegati. Tra l’altro Giocare è un’arte non è – come UDO – dedicato esclusivamente ai videogiochi, ma tratta tutti i giochi, compresi quelli sportivi. Volendo tracciare un sinteticissimo raffronto, potremmo dire che mentre il libro di Thi Nguyen è uno “zoom in” sul fenomeno ludico che utilizza la lente filosofica, quello di Lupetti è uno “zoom out” su quello videoludico che utilizza una lente storica (una storia contemporaneamente economica, politica e sociale). Non resta dunque che presentarli singolarmente e destinare eventualmente alla conclusione una sintesi.

IL GIOCO COME TECNOLOGIA TRASFORMATIVAgiocare-WEB-1

C. Thi Nguyen, professore di filosofia presso l’Università dello Utah, presenta il suo testo come un’evoluzione della definizione di gioco offerta da Bernard Suits nel suo La cicala e le formiche. Gioco, vita e utopia (Junior, 2021; ma l’edizione originale è del 1978): “giocare è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari”. L’elemento che manca alla definizione suitsiana è, per Thi Nguyen, il concetto di agency, cioè la necessità del fruitore dell’opera (il giocatore) di interagire con l’opera stessa per poterla fruire in modo completo e così come previsto dal game designer. Sul modo di gestire l’agency richiesta dal gioco, Thi Nguyen individua due diverse modalità: una finalizzata al risultato (il voler prioritariamente vincere) e una finalizzata al buon gioco, alla sfida interessante. Per lui i giochi sono una sorta di repertorio di agency che può essere usato dai giocatori per sperimentare ed apprendere modalità agenziali in un contesto sicuro. Il valore del gioco arriva al massimo nei giochi sfidanti con valore estetico in cui il giocatore, pur essendo focalizzato sulla vittoria, non la ricerca come obiettivo esclusivo o principale, ma piuttosto si preoccupa che il gioco stesso procuri soddisfacenti sensazioni estetiche. Cosa che può accadere se fa in modo che tutti i giocatori assieme a lui abbiano la possibilità di vittoria (quindi Thi Nguyen condanna chi cerca avversari inferiori per garantirsi maggiori probabilità di vittoria come spinto appunto unicamente dalla motivazione di vincere, non di provare piacere da una sfida interessante). Gli ultimi capitoli del libro sono però dedicati a mettere in guardia i lettori dai “rischi” del gioco. Che non sono quelli dell’incitamento alla violenza ma riguardano piuttosto la banalizzazione dei valori. Già nel mio articolo sul Manifesto dove presentavo la traduzione italiana del libro di Suits segnalavo un varco nella sua argomentazione:

L’ottica utilizzata da Suits per definire filosoficamente il gioco è (paradossalmente?) alla base dell’utilizzo delle meccaniche ludiche in contesti estranei al gioco nella «gamification». Gli psicologi del lavoro hanno infatti utilizzato l’analisi di Suits per proporre ai lavoratori di un’azienda tramite un gioco – magari a premi – attività non sempre gradite, come la formazione, in modo coinvolgente e sottratte al meccanismo della contrattazione. Altri ambiti di utilizzo sono quelli della promozione di prodotti o servizi utilizzando dinamiche ludiche per fidelizzare la clientela. Infine quello della didattica ludica è un campo sempre più approfondito per portare nella scuola, dalla primaria all’università, l’inclusività ed il divertimento del gioco finalizzato all’apprendimento.

Tutto ciò avviene perché chi lavora, chi valuta un prodotto o un servizio, chi studia tende spontaneamente al minor sforzo, al risparmio di denaro e di energie. Chi invece gioca, si diverte in modo particolare a mettere alla prova le proprie capacità e a tentare di superare i propri limiti. In questo modo l’attitudine «lusoria» viene completamente ribaltata ad appannaggio di motivazioni esterne al gioco che funzionano tanto meglio quanto meno ne è consapevole il giocatore.

Thi Nguyen precisa che l’utilizzo della gamification è pericoloso perché mette a disposizione i valori semplici ed univoci che utilizzano i giochi (e che all’interno dei giochi sono perfetti perché offrono obiettivi chiari ai giocatori, permettendo loro di concentrarsi piuttosto sulla loro agency all’interno del gioco per raggiungere la vittoria) nella realtà dove i valori sono normalmente invece complessi e problematici. L’utilizzo indiscriminato della gamification, cioè di meccaniche ludiche in contesti non ludici pone il problema della posizione di obiettivi apparentemente chiari e diretti nascondendo – invece di mostrare – i possibili risvolti problematici.

GUIDA AI VIDEOGIOCHI NELL’ANTROPOCENE41AcYDsVESL._SL1000_

Nel suo libro Matteo Lupetti ha il pregio di mostrare come il videogioco sia il frutto dell’accelerazione applicata all’economia mondiale da parte dell’industria militare uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, accelerazione ottenuta anche tramite strategie neocolonialistiche di sfruttamento capitalistico di minoranze e di paesi ricchissimi di risorse ma fragili a livello socio-politico. Anche il videogioco, anzi il videogioco su tutte le altre innovazioni dell’Antropocene – idealmente fatto iniziare proprio col boom economico – è l’esempio del modello ideologico capitalista che si diffonde a livello mondiale attraverso il gioco (e qui si potrebbe intessere una relazione col libro di Thi Nguyen). Un modello che prevede lo sfruttamento dei lavoratori (sia interni – i programmatori – sia esterni – chi lavora nelle aziende che mettono a disposizione le materie prime, in quelle che le raffinano, in quelle che realizzano i componenti, ecc.) ma anche dei giocatori, ad esempio attraverso l’obsolescenza programmata dei dispositivi, ma anche più sottilmente proponendo versioni mistificate della realtà.

Sul tema citato sopra dell’industria militare come fonte e perno di quella videoludica ho scritto tra l’altro recentemente nella mia presentazione del libro di Gino Roncaglia L’architetto e l’oracolo. Non che, sottolineando questi elementi, Lupetti proponga l’abbandono del videoludico. Piuttosto ne propone un approccio meno supino alle proposte standardizzate della grande industria (videoludica). Un approccio che ne valorizzi la trasversalità tra umano e non umano. Là dove Lupetti ci incoraggia a guardare è negli interstizi (o oltre i loro “margini” per riprendere il titolo della sua rubrica sul Manifesto) dei videogiochi, dove si manifestano i bug o i glitch da considerare non come “errori” ma piuttosto come opere frutto della co-creazione da parte di umano e computer. Proprio in questo senso li definisce “UDO”, cioè “unidentified digital objects”, oggetti digitali non identificati. Non identificati non in quanto alieni ma piuttosto in quanto e là dove sfuggono a una identificazione, e vengono messi in gioco da un approccio queer. Per quanto onestamente trovi eccessivo parlare di creatività della macchina, gli spazi obliqui, gli “easter egg” più o meno intenzionali sono sempre stati uno degli elementi più interessanti del medium. E per certi versi sono essi ad aver ispirato e alimentato l’estetica Machinima (di cui purtroppo Lupetti non tratta) forzando il videogioco a narrazioni esterne e a volte in contrasto con esso. Il principale merito del libro è comunque quello di mostrare come il videogioco non sia assolutamente avulso dal contesto socio-economico e politico della contemporaneità ed anzi ne sia – nel bene e nel male – una delle sue esperienze e sperimentazioni più avanzate e coerenti.

In conclusione possiamo vedere in entrambi i testi il pericolo costituito dal gioco una volta usciti dal cerchio magico che huizinghianamente dovrebbe separarlo dalla “vita reale”. Il gioco resta un’attività fondamentale dell’essere umano, una delle emozioni fondamentali che regolano la vita umana sia a livello biologico sia a livello evolutivo (ma di questo scriverò in un altro post) mentre se sconfina nella vita reale o tramite le pratiche di gamification o trasformandosi in industria a livello mondiale (ma allora questo, oltre che per i videogiochi, vale anche per lo sport?) non può che diventare problematico e trascinare con se pericolose derive e storture.

thi nguyen

C. Thi Nguyen

lupetti

Matteo Lupetti

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GOCCIA DI SAGGEZZA

Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

~ Watzlawick, Beavin e Jackson