Magnuson_cover_front_JDM (1)La notizia della pubblicazione di un testo sulla “poesia videoludica” mi ha affascinato e scoprire che il testo è disponibile digitalmente in open access mi ha deliziato. Il libro è Game Poems: Videogame Design as Lyric Practice di Jordan Magnuson ed è pubblicato da Amherst College Press. Nel sito ad esso dedicato si può: leggere online, scaricare liberamente la copia digitale in formato epub, PDF e per Kindle, ascoltare in podcast, oppure acquistare la copia cartacea per 23,99 dollari. Nella sua pagina, Magnuson, americano nato nel 1984, si descrive così:

Creatore di giochi sperimentali, artista di media interattivi, autore, educatore.

Jordan studia e realizza videogiochi sperimentali e arte multimediale interattiva come creatore indipendente da quasi quindici anni, affondando le radici nella comunità dei giochi indipendenti: ha fondato la sua prima società di giochi indie mentre era al liceo e nel 2005 ha fondato The Independent Gaming Source, un sito comunitario per sviluppatori di giochi indipendenti incentrato sulla promozione di un’etica “d’essai”. Dal 2010, i “serious games”, gli “art games”, i “notgames” e le “game poems” di Jordan sono stati presentati da Wired, PC Gamer, Le Monde e altri, mostrati in festival e mostre in tutto il mondo, nominati per premi come New Media Writing Prize e IndieCade Grand Jury Award, e citati da un’ampia gamma di creatori e studiosi (ad esempio, il suo progetto di giochi di viaggio, Gametrekking, è menzionato nella Cambridge History of Travel Writing).

Jordan è particolarmente interessato a utilizzare gli elementi più elementari di interazione, calcolo e rappresentazione per creare significato e impatto nei videogiochi e a utilizzare i giochi per affrontare argomenti difficili, esperienze soggettive ed emozioni complesse. Jordan ha tenuto conferenze sul game design critico e sperimentale in molti dei migliori corsi sul gioco negli Stati Uniti (tra cui UC Santa Cruz, The DigiPen Institute of Technology, The Rochester Institute of Technology e MIT), nonché per organizzazioni come IndieCade e Google. Ha anche collaborato con docenti e studenti di diverse istituzioni per adattare e utilizzare i suoi giochi nel contesto della ricerca interdisciplinare (ad esempio uno studio psicologico basato sui giochi con Kipling Williams della Purdue University).

Oltre ai suoi impegni come sviluppatore, Jordan nutre anche interesse per gli approcci teorici e accademici agli studi su giochi e media digitali.

Il libro di Magnuson è estremamente interessante perché mette in crisi il concetto filosofico di gioco oggi considerato più preciso, quello di Bernard Suits secondo cui “giocare è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari” (ne ho scritto qui). Seppur Magnuson non affronti la definizione suitsiana e il ragionamento filosofico che la sostiene, più volte nel corso del libro parla, sia per i videogiochi, sia per la poesia, di media che si descrivono per somiglianze e differenze piuttosto che per inscriversi in una definizione precisa, richiamando implicitamente la concezione indeterminata di Wittgenstein. Di più: Magnuson pensa sia lecito distinguere tra videogiochi e giochi come media sostanzialmente diversi dove solo il primo riesce ad esprimersi in maniera poetica, anche rinunciando ad elementi – da Suits e non solo – considerati fondamentali per considerare un’opera un gioco, primo fra tutti la presenza di ostacoli da superare. Se andiamo a vedere i videogiochi realizzati da Magnuson (linkati sulla sua pagina e per lo più fruibili da browser), diversi dei quali sono analizzati anche nel libro, non troviamo ostacoli, quanto meno ostacoli “superabili”. Sono rappresentazioni di stati d’animo, di emozioni, di come l’autore sperimenta con angoscia drammi del mondo reale. Ed è Magnuson stesso a porsi la domanda nel suo libro: possono questi essere considerati “videogiochi”? In altri casi e in altri contesti hanno appiccicata una diversa etichetta che va da “serious games” ad arte interattiva. Ma Magnuson insiste: queste sono poesie videoludiche nel senso che hanno lo stesso scopo della poesia di trasmettere suggestioni ed emozioni tramite il linguaggio. Un linguaggio che per le poesie videoludiche non è necessariamente quello testuale, piuttosto un linguaggio in cui le immagini (e solo in certe opere i testi) interpellano il giocatore richiedendogli una interazione che comunque si discosta dalla rappresentatività pura dei videogiochi commerciali (premo il pulsante del mouse=sparo, premo la barra spaziatrice=salto, ecc.) così come se ne discosta l’apparato estetico con cui deve interagire (in cui alla ricerca del realismo si preferisce l’utilizzo di metafore visuali, di elementi visivi volutamente grezzi e/o astratti). Se dunque per Magnuson queste opere sono a pieno titolo videogiochi, mette invece in dubbio che possano essere considerati giochi. I giochi (non video, e che quindi potremmo ricomprendere sotto il termine ombrello di analogici) a quanto pare non hanno – per Magnuson – spazio per tale rappresentazione prioritaria di suggestioni e/o emozioni. I giochi (analogici) sono definiti in via prioritaria – se non esclusiva – dalle “meccaniche”. Magnuson richiama all’inizio del libro la diatriba sorta all’alba dei game studies tra ludologi e narratologi (che se si va a vedere negli archivi di questo blog si trova trattata varie volte anche qui) che dichiara ormai sopita, ma che forse torna ad avere senso se ci volgiamo esattamente alla forma analogica del gioco. La grafica e più in generale l’ambientazione di un gioco hanno una loro importanza o piuttosto sono un mero abbellimento alle meccaniche, che sono quelle che principalmente o esclusivamente definiscono il gioco? Col paradosso – detto per inciso – che è la grafica ad essere protetta dal diritto d’autore, mentre le meccaniche sono tranquillamente trasferibili da un’opera all’altra.

Un possibile rilievo all’argomentazione magnusoniana è che considera poesie videoludiche eclusivamente una fetta piuttosto ristretta della produzione videoludica, se non in termini numerici, quantomeno in termini estetici: perché, ad esempio, non analizzare un videogioco come Jorney, che pure avrebbe tutte le caratteristiche della poesia videoludica tranne per il fatto che si tratta comunque di un’opera commerciale? Perché non provare a capire la poeticità di opere come Heaven’s Vault o di This War of Mine? E proprio pensando a quest’ultimo titolo mi viene da domandarmi: se esso può essere considerato, almeno in alcuni tratti, poetico, lo può essere anche la versione analogica (il gioco da tavolo)? Il tratto, l’elemento di poeticità – se presente – è riuscito a trasferirsi assieme al salto mediale o no? In realtà, indipendentemente dalla risposta alla domanda (una domanda con comunque troppe variabili per poter avere una risposta in qualche modo significativa), il dubbio magnusoniano sulla intrinseca non poeticità dei giochi analogici dovrebbe spingere i game designer – che contemporaneamente si sentono poeti o comunque amanti della poesia – a confutarlo, a dimostrare che è possibile fare poesia anche utilizzando come linguaggio meeple e dadi.

Per concludere segnalo che il libro di Magnuson comprende un’appendice con il link a siti dove è possibile trovare poesie videoludiche e tool, per la maggior parte gratuiti, per crearle.

Jordan Magnuson con suo figlio Marcus
Jordan Magnuson con suo figlio Marcus

2 risposte a “Poesie videoludiche: sul libro di Jordan Magnuson”

  1. Avatar Il fumetto popolare secondo Lorenzo Calza – ossessioni e contaminazioni by francesco mazzetta

    […] sulle fanzine Aleph e Schizzo (del Centro Fumetto Andrea Pazienza di Cremona). È possibile vedere la mia recensione al libro Game Poems di Jordan Magnuson per rendersene conto e comunque i post dedicati ai […]

  2. Avatar Indispensabile cultura videoludica – ossessioni e contaminazioni by francesco mazzetta

    […] di Bernard Suits (vedere a proposito la mia recensione), dovremmo escludere dal novero dei giochi. Ho scritto, lo scorso novembre, delle poesie videoludiche di Jordan Magnuson: esse, dal punto di vista suitsiano, non sono assolutamente giochi, non ci sono ostacoli da […]

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Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.

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